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domenica 1 febbraio 2015

IV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO B

“Parlerò affinché la spada della Parola di Dio anche per mezzo di me arrivi a trafiggere il cuore del prossimo. Parlerò affinché la Parola di Dio risuoni anche contro di me per mezzo di me”. (Gregorio Magno, da Omelie su Ezechiele 1, 11) 


Libro del Deuteronomio 18,15-20.
Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto.
Avrai così quanto hai chiesto al Signore tuo Dio, sull'Oreb, il giorno dell'assemblea, dicendo: Che io non oda più la voce del Signore mio Dio e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia.
Il Signore mi rispose: Quello che hanno detto, va bene;
io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò.
Se qualcuno non ascolterà le parole, che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto.
Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dei, quel profeta dovrà morire. 

Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinti 7,32-35.
Fratelli, vorrei che voi foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore;
chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie,
e si trova diviso! Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito.
Questo poi lo dico per il vostro bene, non per gettarvi un laccio, ma per indirizzarvi a ciò che è degno e vi tiene uniti al Signore senza distrazioni. 

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Marco 1,21-28.
Andarono a Cafarnao e, entrato proprio di sabato nella sinagoga, Gesù si mise ad insegnare.
Ed erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi.
Allora un uomo che era nella sinagoga, posseduto da uno spirito immondo, si mise a gridare:
«Che c'entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci! Io so chi tu sei: il santo di Dio».
E Gesù lo sgridò: «Taci! Esci da quell'uomo».
E lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.
Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità. Comanda persino agli spiriti immondi e gli obbediscono!». 



Deuteronomio è il quinto libro del Pentateuco dopo: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri. Raccoglie, per gran parte delle sue pagine, i discorsi di Mosè pronunciati soprattutto nella pianura di Moab, di fronte a Gerico, il “catino di Dio”, come recita un salmo.
Il profeta pronuncia i suoi sermoni, esortando il popolo a osservare i Comandamenti e a insegnarli diligentemente ai figli. Il grande appello del Deuteronomio è di amare Dio, che tanta bontà mostra al suo popolo. In questo brano,
Deuteronomio parla della presenza necessaria della Parola di Dio in mezzo al popolo e dell’importanza capitale del profeta, di colui il quale porta il messaggio divino agli uomini del suo tempo.

Profeta non è colui il quale predice il futuro, come si è portati a credere, ma è chi presta la sua bocca a Dio, il portavoce della Parola attraverso la predicazione. 
La presenza del profeta è anche scomoda! Spesso svela il male dei cuori, denuncia, accusa. Qualche altra volta, l’oracolo del Signore in realtà approfitta del suo ruolo e della sua autorità, mettendosi al servizio degli altri e di se stesso, abbandonando la vera “Voce”, quella di Dio.
È comunque un segno privilegiato della presenza del Signore che prende l’iniziativa, che vuole rimanere in dialogo con il suo popolo e fa sorgere in seno alla comunità per Sua azione diretta, uomini ispirati:
 “Il Signore tuo Dio susciterà in mezzo a te un profeta”. (v.15). “Io gli porrò in bocca le mie parole” (v.18).

E adesso attualizziamo la Parola per noi! In un mondo assuefatto al vento delle opinioni e al corto respiro della quotidianità, Dio sembra fuori gioco.
Come può il profeta annunciare la salvezza? E chi è il profeta? È un volto qualunque, uno dalla storia banale, un cuore grande, un partigiano del Creatore, appassionato della sorte dell’uomo. È un individuo capace di indicare i sentieri della vita, di suscitare speranza, di dare un supplemento d’anima a tutto ciò che esiste, che porta con se una lucida coscienza della verità, che gli dona il coraggio di denunciare le ingiustizie e smascherare le ipocrisie.
IL PROFETA PER ECCELLENZA, OGGI, E' PAPA FRANCESCO CHE CI PARLA PER BOCCA DI DIO.  

E se fossimo anche noi i chiamati a essere profeti e a portare la Parola agli altri?
Suscitato dal Signore nei frangenti più tumultuosi della storia, con la venuta di Cristo, è profeta ogni battezzato chiamato a essere sale e luce della terra! Sappiamo ascoltare Dio che ci parla? Lottiamo con la preghiera quotidiana e l’assiduità nella Parola, per avere una fede salda e annunciare la buona notizia?
 La profezia ha il suo nemico nell'anonimato. Siamo noi quelli che rinunciamo al ruolo di portavoce divino per vivere nel nostro rassicurante guscio, lontano dagli altri fratelli, il cui destino non ci interpella. Siamo di quelli che non abbiamo tempo e attenzione da dedicare ai fratelli? Seguiamo, si o no, l’invito di Cristo a:
 “Gridare dai tetti quanto è ascoltato all'orecchio” (Lc 12, 3) e a “rendere ragione della speranza” (1Pt3,15)?

Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo ai Corinzi. inizia col dire che desidererebbe per tutti una vita serena così da poter aderire con fede al Signore. Chiaro che la scelta del celibato è un modo più semplice per consacrarsi a Dio. Ciò non significa che Paolo disprezzi la vita matrimoniale né che ci siano ideali di santità diversi tra sposati e celibi. Non è che soltanto nella vita del celibe si intrecci l’appartenenza al Signore. La vita matrimoniale è causa inevitabile di qualche tensione, spiega l’apostolo, che rende più difficile rapportarsi con Dio.
È indubbio, al contrario, che qualche volta, l’asprezza della vita in comune con coniuge e figli, può aiutare di più ad affidarsi alle mani premurose del Padre Celeste. Paolo non intende “gettare un laccio” (v.35), solo illuminare le coscienze su cosa è conveniente per restare uniti al Signore senza distrazioni. Sia che la vita si indirizzi verso il celibato che nella famiglia, la preoccupazione principale deve essere “piacere al Signore”.
 Questo vale per tutti. Lo sposato/a piace al Signore, solo se adempie al dovere di attenzione verso i cari. Con loro condivide il cammino di vita perché sono dono di Dio che si accoglie nella gioia.

Nel Vangelo di Marco iniziano gli insegnamenti di Gesù nelle sinagoghe della Galilea, dove insegna e desta stupore per l’autorevolezza della sua dottrina. (Marco usa la parola insegnare per 15 volte e insegnamento per 5).
Gesù non interpreta la legge ma è Lui la legge, quella nuova che chiede “amore”. La sinagoga era una grande stanza rettangolare con un armadio per i codici della Bibbia e il pulpito dal quale leggerli e commentarli. Proprio in una di queste sinagoghe, quella di Cafarnao, accade il primo miracolo, un esorcismo e la conseguente reazione incredula della gente: “Che è mai questo? Una dottrina nuova! Comanda persino agli spiriti immondi e gli obbediscono”. (vv21- 28). Le parole di Gesù hanno del sorprendente, niente a che vedere con i sermoni ammuffiti degli scribi. Lui spiega le Scritture come “maestro di vita”.
Le sue sono profezie e non insegnamenti sapienziali, frutto di studi. È un’irresistibile autorità! Cafarnao viene scelta in quanto città di un certo prestigio politico e religioso. Il segno avviene di sabato, giorno sacro per gli Ebrei, come festa della lode e del ringraziamento per la liberazione della schiavitù d’Egitto. Al centro dell’episodio è la guarigione del malato. Il racconto dell’esorcismo colpisce. Gesù rimane quasi in silenzio. Pronuncia il suo “Taci, esci” al demone per far capire che ha il potere su tutto e tutti. Il diavolo riconosce in Lui un personaggio straordinario e unico con: “Io so chi tu sei: il santo di Dio!”.
La guarigione dell’indemoniato non è tanto importante per rimarcare le virtù taumaturgiche del Cristo, ma è lo è soprattutto per il messaggio che porta: la vittoria di Gesù, nostro unico bene, sul male. Il male cerca di intimidire anche noi come accade per Gesù. Ogni cristiano deve saper reagire al demonio che cerca di spiazzare chiunque annullando la dignità delle persone e la loro libertà. Marco esorta a non prendere sottogamba il male. Affrontiamolo, rivestendoci dell’autorità che ci viene da Dio.
Abbiamo la certezza di avere la sua presenza accanto a noi e di essere stati creati “poco meno inferiori a Dio”. Essere certi di questa grandezza non è superbia, essere alteri. È, invece, l’essere consci di un amore divino grande anche se immeritato.

lunedì 26 gennaio 2015

Il monogramma bernardiniano

Non so quanti di voi conoscano il monogramma o trigramma bernardiniano o, seppur conoscendolo nelle fattezze per averlo visto in un convento, non sanno cosa significhi sostanzialmente.

Il grande predicatore del ‘400, San Bernardino da Siena, seguace di San Francesco, propagò con grande slancio la devozione al S.S. Nome di Gesù, perché
“in nessun altro nome c’è la salvezza; non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12).

Il santo creò, quindi, un simbolo consistente in un sole raggiante in campo azzurro con le lettere IHS che sono le prime tre del nome di Gesù in greco.
Sopra la lettera H mise un allungamento dell’asta a rappresentare la croce di Cristo, quella che tutti debbono portare per la sequela al Cristo.
Il disegno fu realizzato dal frate francescano che in seguito, proprio per questa sua capacità di comunicare, divenne il patrono dei pubblicitari.
Con un’intuizione dettata, forse, dallo Spirito Santo, San Bernardino affinché rendesse sempre più efficace la sua predicazione inventò quindi questo emblema che, in breve, si diffuse grandemente e spesso sostituì anche stemmi e blasoni di antiche Corporazioni.

Da Siena, città del santo, dove fu esposto sulla facciata del Palazzo Pubblico e dove si trova ancora oggi, il monogramma si diffuse capillarmente, grazie anche al passaggio di Bernardino e dei suoi seguaci in giro per l’Italia.
In breve questa sorta di stemma arrivò in tutta Europa, portando capillarmente il messaggio del Figlio di Dio, la sua sofferenza sul Calvario, il trionfo della Resurrezione e l’Ascensione al Cielo.
Figurava sugli stendardi e su tavolette di legno che il santo francescano poggiava su tutti gli altari dove celebrava la Santa Eucarestia.

Bernardino non aveva creato un disegno a caso.
Tutto in quel logo antico aveva un significato: il sole centrale per il santo rappresentava il Cristo fonte di vita che irradiava amore e carità; i dodici raggi richiamavano i discepoli, gli Apostoli inviati dal Cristo a portare la Parola; gli otto raggi diretti ricordavano le Beatitudini e la felicità dei Beati; il celeste dello sfondo era il simbolo della fede.
Nell'originale disegno, San Bernardino scrisse anche in latino le belle parole tratte dalla Lettera di San Paolo alla comunità di Filippi:
 “Nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi sia dagli esseri celesti, che dei terrestri e degli inferi”

Si legge nel Sermone 49 del santo:
 “Tu, o Gesù, onore dei credenti, forza di coloro che operano, Tu sostegno dei deboli, per Te i malati sono sanati, le colpe perdonate, e coloro che soffrono sono irrobustiti”.

Il sole raggiante del Santissimo Nome di Gesù, illumina, riscalda, feconda nei secoli perché tutti abbiano il Cristo “nella mente, nel cuore e nelle opere che accompagnano il cammino di ogni giorno”.

domenica 25 gennaio 2015

III DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO: CICLO B

Giona 3,1-5.10; Salmo 24; 1Cor7, 29-31; Marco 1, 14-20 

Libro di Giona 3,1-5.10. 
Fu rivolta a Giona una seconda volta questa parola del Signore: "Alzati, và a Ninive la grande città e annunzia loro quanto ti dirò". Giona si alzò e andò a Ninive secondo la parola del Signore. Ninive era una città molto grande, di tre giornate di cammino. Giona cominciò a percorrere la città, per un giorno di cammino e predicava: "Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta". I cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, dal più grande al più piccolo. Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si impietosì riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece. 

Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinti 7,29-31. 
Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d'ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l'avessero; coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo! 

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Marco 1,14-20. 
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo». Passando lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito, lasciate le reti, lo seguirono. 


Continua il tempo ordinario della Chiesa nell’Anno B, ma queste domeniche di ordinario non hanno un bel niente.
La settimana scorsa la liturgia ci ha proposto una straordinaria riflessione sul senso della vita, sulla capacità di rispondere alla chiamata del Signore per essere davvero suoi discepoli e non solo con la bocca.

Anche oggi la Parola ci offre tante sollecitazioni per vivere nel nome del Signore.

Mentre la scorsa settimana la parola chiave era : Chiamata, in questa terza settimana è: Conversione! 

Infatti, la domenica oltre a coincidere con la fine della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani ricorda anche la grande festa della Conversione di San Paolo. In queste domeniche, si proclama il Vangelo di Marco. È il più sintetico dei quattro evangelisti ma, certamente, il più vicino alla vicenda terrena del Cristo, essendo il suo scritto, frutto della testimonianza del primo degli Apostoli, Simon Pietro. Gesù, qui, parla pochissimo.
Proclama il Vangelo (il Kerussein) senza fronzoli perché si tratta di credere o non credere in Lui prima ancora che nel suo insegnamento, prorpio come fanno i quattro discepoli del brano di questa domenica. Accogliamo in maniera profonda l’appello di Gesù che ci chiede di invertire la rotta e credere profondamente al Vangelo. Cristo ci chiede non una conversione di penitenza e digiuno, ma di consacrare davvero la nostra esistenza a Lui.

Nella prima lettura, il profeta Giona anticipa, nella sua predicazione e nella risposta dei Niniviti al messaggio di Dio, questa esigenza di conversione.
 La condotta di Ninive ci offre un primo insegnamento: è necessario imparare a rispondere con fede docile al Signore non soltanto con la bocca, ma soprattutto con il cuore. Dobbiamo essere capaci di passare attraverso un mutamento radicale della condotta, per ricevere, come accade agli abitanti di Ninive, il perdono e trovare la via della vita.

La conversione è una dialettica tra parola e silenzio: Dio, da una parte, parla come ha fatto con il giovane Samuele, di notte nel silenzio; dall’altra l’esperienza di Lui porta al silenzio tutto il resto. Occorre però nella conversione un cuore di carne come ricorda il salmo 95,8:
“Oggi se udite la sua voce non indurite il cuore”.
Il libro di Giona è da leggere tutto d’un fiato. È una novella deliziosa, un romanzo didattico del Vecchio Testamento di soli quattro capitoli, scritto probabilmente tra il 500 e il 400 a.C. Fa parte dei dodici piccoli libri dei profeti cosiddetti “minori”, scritti tra l’VIII e il IV secolo.
Sono minori perché si tratta di libri molto più brevi dei quattro profeti maggiori, Isaia, Geremia Ezechiele e Daniele. Parliamo di Osea, Gioele, Amos, Malachia, Zaccaria, Sofonia, Abacuc e altri. Giona è un personaggio fra i più malintesi, anche favolistico.
Pretende di piegare Dio alle sue vedute: non vuol seguire la chiamata a partire secondo le indicazioni del Signore, per ad andare verso la grande città a portare il suo messaggio.
Piuttosto si dirige decisamente verso la direzione opposta. Il profeta ha prima bisogno di convertire se stesso, poi può adempiere alla missione di portare conversione gli altri. Non è forse quello che viene chiesto a noi? Come possiamo condurre i fratelli a Dio, se non abbiamo un cuore di carne dentro di noi? Tutto il racconto non parla tanto della conversione di Ninive, ma di quella a cui Dio intende condurre Giona.
Il nostro Signore si prende cura dei vicini e dei lontani – ci dice questo libro - non vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva così come accade per il religioso e fondamentalista Giona che incontrerà la novità del suo Dio che tanto lo ama.
Il soggiorno nel ventre del pesce e il suo rigenerarsi dai peccati per donarsi all'ascolto di Dio, ci fa capire come il Signore ci insegue per farci tornare pienamente a Lui. Ne inventa di ogni colore per darci salvezza.
Il racconto della conversione di Ninive ha anche un’allegorie: tre giorni per girare la città per intero, un numero che richiama il tempo di Giona nel ventre della balena, ma anche i tre giorni della morte nel sepolcro di Cristo!

Nella Seconda lettera ai Corinzi due sono le frasi importanti che aiutano a chiarire il rapporto che noi cristiani dobbiamo avere con la realtà mondana:
 “Il tempo si è fatto breve” (v.29) e “Passa la scena di questo mondo”.
Paolo non intende il tempo in senso cronologico ma come momento favorevole (il Kairos), l’occasione per delle nuove opportunità. Paolo non è un menagramo, predicatore di apocalissi o di fine del mondo. Al contrario, manda un messaggio di speranza e consolazione. Noi siamo chiamati a vivere nella vigilanza, prendendo correttamente la distanza dalla realtà terrena, vivendo si nel mondo ma con lo stile di chi porta con se il Signore. Sono cinque le volte in cui si dice di vivere “come se non”… è l’invito pressante della conversione, del distacco per quanto possibile delle cose terrene, per riempire il tempo della presenza di Cristo.

Chiediamo allo Spirito di illuminarci sul senso dello scritto di Paolo. È chiaro il significato di quelli che piangono … gioiscono … ma quanto è sibillina la frase:
“Il tempo si è fatto breve; ora innanzi quelli che hanno moglie vivano come se non l’avessero”? Abbiamo bisogno di comprendere che noi coniugi siamo chiamati a realizzare il progetto di Dio attraverso l’unione ma senza perdere lo spirito del pellegrino e del forestiero perché la vera patria la incontreremo nell'eternità.
I nostri figli, il nostro partner non sono nostri, né apparteniamo a questo mondo dove tutto è labile. È così anche per chi è nello stato di figlio, lavoratore o missionario. Ognuno ha il suo ruolo, il suo compito assegnato. Viviamo con gioia questi attimi passeggeri, non disprezziamo la concretezza, insegna Paolo, ma non dimentichiamo l’Assoluto .

Il Vangelo di Marco narra, con la consueta veste asciutta, le altre chiamate lungo il mare di Galilea, dei discepoli.
All'inizio del brano, l’evangelista offre le coordinate, per vivere in profondità, la lieta notizia che Gesù è venuto a portare:
 “Il tempo è compiuto, il Regno di Dio si è fatto vicino. Convertitevi e credete al Vangelo” (v.15)

C’è da notare una particolarità.
Finora abbiamo visto tanta gente uscire di casa per recarsi sulle rive del Giordano a trovare il Battista e un battesimo. Ora è Gesù stesso che si reca dove la gente vive la sua esistenza. Ecco il venire di Dio in mezzo all'umanità, il farsi incontro del Signore agli uomini.
Questo può accadere solo se gli ascoltatori credono e si convertono.
Se l’uscio del nostro cuore rimane chiuso sarà impossibile per Gesù raggiungerci. Il Vangelo continua con il racconto della chiamata ai primi discepoli, con le due coppie di fratelli, Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni.
Ai primi due, Gesù dice: “Seguitemi e vi farò pescatori di uomini”. Simone riceve il nome di Cefa, cioè Pietro e avrà un dono grande e gravoso dal Signore:
“Pasci le mie pecore e i miei agnelli”.
Anche a noi, Gesù mostra il suo piano divino nei nostri confronti.
Esso tiene conto delle doti di ognuno di noi. Non ci viene chiesto l’impossibile ma, per un mistero insondabile, non si interessa delle nostre inevitabili debolezze. Dio ci sceglie ma la sua chiamata esige decisione. Anche per noi, come per gli apostoli, non conta il passato, né il futuro.
Conta l’oggi, il presente che abbiamo tra le mani.
Anche a noi ci viene detto: “Sarete pescatori di uomini”.
Li dovremo conquistare a Dio non con lenze ed esche ma con testimonianza di vita, sul grande modello di Gesù infallibile testimone.
 Anche la chiamata di Giacomo e Giovanni porta con se un insegnamento.
Si legge: “… lasciarono la barca con il padre e i garzoni e lo seguirono”.
Erano persone agiate, avevano dipendenti e una piccola impresa di pesca ben organizzata. Gesù li toglie da questo benessere perché sa che è una condizione che prima o poi finirà. La sua è una chiamata per la vita eterna!
 Un bene molto più grande è sempre pronto anche per noi. Solo che spesso non ce ne rendiamo conto. Noi non guardiamo oltre la punta del naso, Dio è lungimirante!

Per la nostra preghiera:
O Signore Gesù ci chiami incessantemente alla conversione,
ci insegni continuamente a saper approfittare del tempo propizio concessoci.
Non permettere che ci distraiamo.
Mantieni i nostri cuori consacrati a te e nello stato di vita a cui Tu ci hai chiamati.
Vogliamo piacerti, capiamo che questa è l’unica cosa della quale vale veramente la pena di preoccuparsi.

Aiuta noi e le nostre famiglie a capire tutto questo.

mercoledì 21 gennaio 2015

San Francesco e la lettera autografa a Frate Leone

"Frate Francesco servo e suddito di tutti, Vostro servo nel Signore Dio ... piccolo e spregevole!"
(FF 179-180, 210)

È noto a chi ha cercato di conoscere la vita di San Francesco, quale rapporto di amicizia e amore c’era fra il serafico Padre e Frate Leone.

Chi non ha approfondito questo legame forte può capire tutto, meditando la stupenda benedizione che l’uomo santo di Assisi dedicò al suo seguace più affezionato:
“Il Signore ti benedica e ti custodisca. Mostri a te la Sua faccia e abbia di te Misericordia. Volga a te il Suo sguardo e ti dia Pace”. 

A Spoleto, all'interno della bellissima basilica cattedrale, è custodito uno dei cimeli più importanti di San Francesco che testimonia quale grado d’intimità spirituale e di affetto legava i due frati: la celebre lettera autografa scritta di suo pugno dal santo nel 1224.
Si tratta di un prezioso "biglietto" che contiene semplicemente un consiglio su come piacere a Dio, nell'assoluta libertà di spirito.

Non si poteva scegliere un luogo migliore per custodire questo scritto.
Francesco era molto legato alla valle Spoletina.
Se vi recaste a Monteluco, sei chilometri dalla città, all'interno del famoso bosco sacro, luogo storico di eremitaggio sin dall'antichità, dove hanno pregato in cellette oggi rimaste come allora, anche San Bernardino e Sant'Antonio da Padova, c’è un bellissimo belvedere.
Qui un cippo riporta le parole di Francesco che, osservando il mosaico di campi coltivati della valle, esclamò:
 “Nil iucundius vidi valle mea Spoletana”, cioè: “Non ho visto niente di più giocondo della mia valle Spoletana”. Francesco aveva avuto il suo grande sogno proprio in queste contrade, dove la voce di Dio gli disse, riguardo al fatto che il giovane voleva recarsi nelle Puglie per combattere:
“Chi può esserti più utile, il servo o il padrone?”.
Francesco capì e si piegò docilmente al progetto di Dio per lui, rinnegando la sua volontà.

È indubbio che, dopo le sacre spoglie custodite e venerate nella cripta della basilica di Assisi, le reliquie più preziose siano i due documenti autografi che Francesco ha lasciato ai posteri.

Una è la cosiddetta “Chartula”, presente sempre nella basilica di Assisi, scritta dopo il grande fenomeno delle dolorose stimmate ricevute dal Poverello nel convento de La Verna, in mezzo alla grande foresta casentinese in Arezzo.

È famosa, oltre per la Benedizione di Frate Leone, per la grande preghiera delle “Lodi di Dio Altissimo”, uno dei momenti più grandi di meditazione contemplativa del santo, che vuole trasmettere al mondo lo stupore e le forti emozioni provate nell'estasi dell'impressione delle Sacre Stimmate.

L’altra autografa è proprio quella di Spoleto che un tempo era custodita nella chiesa minoritica di San Simone, salvata dall'incuria e oggi protetta in una teca nella cattedrale spoletina, all'interno della bella cappella delle reliquie.

È un piccolo foglio di pergamena che pare sia stata ricavata dalla pelle delle capre, che contiene poco più di una quindicina di righe ben conservate.
Dall'attenta lettura dello scritto si evince che si tratti proprio di pensieri francescani.
Il serafico Padre rinnova tutta la sua fraterna tenerezza nei confronti di Leone che attraversava un periodo di grande confusione e di crisi.
 Non stupisce tutto ciò.
La fraternità francescana era ormai luogo di numerose vocazioni.
Non si trattava più di uno sparuto gruppetto di fratini.
Il numero dei consacrati cresceva sempre più e non tutti gradivano la radicalità del progetto evangelico di Francesco.
L’Ordine non poteva più esimersi dalla pluralità delle idee, dalle diverse interpretazioni della fede, da discussioni e contrasti anche forti. Lo stesso Francesco era stato più volte messo in discussione, nonostante fosse stato il fondatore del movimento e l’indiscusso leader.

Leone, si capisce dallo scritto aveva avuto un colloquio privato e stretto con il suo amico Francesco, mentre camminavano insieme. Ora il frate sentiva il bisogno di un nuovo consulto che chiarisse le idee sul tipo di sequela cui Cristo lo chiamava, il vero significato della povertà evangelica su cui Francesco insisteva continuamente e su ciò che l’Ordine stesse diventando con tutte queste nuove adesioni da ogni parte d’Italia.
Forse Leone si faceva interprete del desiderio di molti altri compagni di poter avere certezze dal santo di Assisi.
Nella lettera, appare chiaro come Francesco vivesse in una dimensione estremamente più alta di tutti gli altri. Guarda ai problemi terreni con il distacco di chi sa che non è qui la vera vita cui tendere. Francesco termina dicendo a Leone che sia lui che gli altri, hanno carta bianca per comportarsi in qualunque modo sembrasse meglio per la loro vita.

La conclusione è meravigliosa e rende idea dell'intenso percorso di condivisione di ideali vissuto dei due: "Se credi necessario per il bene della tua anima venire da me, e lo vuoi, vieni Leone caro"!

martedì 20 gennaio 2015

I piedi di Francesco d'Assisi

Le pareti affrescate mirabilmente nella basilica intitolata a San Francesco in Assisi, raccontano storie straordinarie di un uomo santo che, camminando fino a riempire di vesciche i suoi piedi, ha portato ovunque la “buona notizia” del Vangelo.
Raramente, i pellegrini soffermano la loro attenzione, su queste mura artistiche, rimanendo ben pochi istanti davanti a questi dipinti eccezionali. Si visita questo luogo sacro, come accade anche in molti altri siti di grande spessore spirituale, con quella fretta che induce a dedicare sguardi fugaci ai particolari, concentrandosi sulle parti che si pensa siano pregnanti per la devozione al santo.
(nella foto: Rinuncia ai beni di Giotto)

Ecco che la tomba di Francesco o il presbiterio della Chiesa superiore, ricevono molta attenzione anche perché ci si sofferma a lungo in preghiera, per la confessione, oppure per partecipare alla Santa Eucarestia.
L’itinerario del devoto è stabilito in un percorso creato per favorire un regolare flusso dei visitatori, che sono costretti o quasi ad avanzare spediti, sfiorando con lo sguardo, quanto di immortale contengono le sacre mura.

Siamo un tantino tutti così: collezionisti di luoghi.
Non viviamo l’eccezionalità del momento e siamo protesi al prossimo posto da visitare quando ancora non finiamo di godere l’attuale.
Diventa importante dire che nel nostro carnet di visite si può annoverare un consistente numero di monumenti, pur non avendoli vissuti completamente.
Accade allora che, in questa assurda mania di collezione, perdiamo l’occasione di ammirare un ambulacro e un presbiterio del ‘400, un indimenticabile crocifisso ligneo, una bella balaustra della Cappella dedicata alla Riconciliazione e anche degli episodi della vita di Francesco, magistralmente raccontati dai dipinti di grandi artisti.
Qualcuno, anzi, dirà che questo sarebbe superfluo, visto che più o meno tutti conosciamo gli avvenimenti principali della santa esistenza del Poverello di Assisi. (Nella foto Morte del Cavaliere)

Conosco gente che si reca quasi ogni anno ad Assisi ma non si è mai fermata nella basilica superiore a vivere le storie di Francesco attraverso gli occhi, la mente e le braccia del grande Giotto.
In questi capolavori, il pittore narra a modo suo, di un uomo legato alla natura, alla povertà e alla predicazione del Vangelo. Francesco, è noto, nacque ad Assisi nel 1181. Era un giovane colto, raffinato e ambizioso che scelse subito la vita militare per mania di carrierismo e per salire le gerarchie della società del tempo.
Si arruolò nell'esercito che Gualtiero di Brienne stava attrezzando per l’ennesima Crociata.
Il Signore aveva ben altro destino per il giovane e presto ci fu una conversione che io azzarderei, uguale a quella del grande San Paolo.

In breve Francesco e la sua "pianticella" Chiara, divennero quello che tutti conosciamo: i pazzi innamorati del Cristo!

Oggi, tutto in Assisi parla di lui.
Anche nei dintorni, da Spello a Gubbio, Bevagna, Narni e, fin sulle pendici del monte Subasio, dove era sua abitudine ritirarsi con i frati, tutto racconta di uno straordinario uomo alla sequela di Gesù.

Se ci si reca nella cattedrale assisiana di S.Rufino, si guarda il fonte battesimale dove il giovane ebbe il suo primo Sacramento;
nel borgo antico di Bevagna c’è la pietra sulla quale sedeva, mentre parlava, secondo una simpatica tradizione, agli uccellini volteggianti nel cielo.

Se raggiungiamo la bella Spoleto, all'interno della Cattedrale del XII secolo posta nel centro di una scenografica piazza, c’è la lettera autografa originale, che il santo scrisse di suo pugno per l’amato Frate Leone;
a Bovara, alle fonti del Clitunno, si ammira un crocifisso davanti al quale Francesco riusciva ad
ascoltare la voce di Dio.

Ben altra importanza, poi, per la croce custodita ad Assisi, nel monastero di Santa Chiara, quella da cui il Cristo gli parlò, chiedendo di salvare la Chiesa con il suo mirabile esempio.

Come dimenticare, poi, i luoghi dei “Fioretti”, come Gubbio dove si consumò il miracolo del Lupo? Nel piccolo convento della Vittorina, presso Spadalonga, pochi chilometri dalla cittadina eugubina, avvenne questo che è uno degli episodi più conosciuti, mentre Francesco era lì, rifugiato, dopo l’addio alla casa e agli averi del padre.

Ditemi, come non lasciare il proprio cuore, come è accaduto a me, nelle anguste cellette dove il serafico Padre e i suoi primi frati dimorarono nel delizioso e piccolo convento di Monteluco? Infine, Santa Maria degli Angeli, la grande chiesa del XV secolo che, al suo interno, custodisce la mitica Porziuncola, antico e primo convento francescano dove il serafico Padre terminò la sua esistenza terrena il 3 ottobre del 1226, esalando, nel sorriso, l’ultimo respiro, lì dove c’era la piccola infermeria.

Avevano davvero fatto un’infinità di chilometri i piedi di Francesco e questo, in un’epoca in cui i monaci erano prevalentemente stabili.
Pare sia venuto anche in Abruzzo, fondando vari conventi fra cui l’attuale S. Antonio, nel centro di Teramo.
La predicazione del Vangelo, sua unica ragione di vita, lo portò a girare da un borgo all'altro, raggiungendo mete quasi impossibili per l’epoca: Dalmazia, Spagna, Medio Oriente.

Il sogno di chi scrive è mettersi in cammino, partendo da nord, provincia di Arezzo, santuario de La Verna, luogo simbolo dove Francesco ricevette le stimmate, arrivando ad Assisi, per poi continuare verso Greccio e la valle santa del Reatino, alla ricerca della Regola a Fonte Colombo.
(Nella foto sopra un dipinto di Giotto Il risanamento di Giovanni di Ylerda)

Una serie di tappe indimenticabili: Chiusi, Pieve Santo Stefano, Sansepolcro, Città di Castello, Pietralunga, Gubbio e Assisi con le sue sette chiese dedicate alla memoria del santo.
Poi, la valle di Rieti con il santuario de La Foresta e l’emozione di vedere la cavità della roccia dove il santo pregava ore e ore.

Tappa a Poggio Bustone dove si ricorda il saluto che l’uomo santo rivolgeva agli abitanti: “Buon giorno, buona gente!”, con il faggio, l’albero maestoso dalla forma straordinaria, sotto cui Francesco leggeva.
E per ultima, la mitica Greccio, luogo francescano per eccellenza dove il santo ebbe l’intuizione del presepe. Sono tutti luoghi da me visitati ma in comodità, arrivandoci in macchina o in bus.

Francesco, però, si vive rigorosamente a piedi!

venerdì 16 gennaio 2015

II DOMENICA TEMPO ORDINARIO, CICLO B. domenica 18 gennaio 2015

Prima lettura: 1 Sam 3, 3b-10. 19 
Ma il Signore chiamò di nuovo: «Samuele!» e Samuele, alzatosi, corse da Eli dicendo: «Mi hai chiamato, eccomi!». Ma quegli rispose di nuovo: «Non ti ho chiamato, figlio mio, torna a dormire!». In realtà Samuele fino allora non aveva ancora conosciuto il Signore, né gli era stata ancora rivelata la parola del Signore. Il Signore tornò a chiamare: «Samuele!» per la terza volta; questi si alzò ancora e corse da Eli dicendo: «Mi hai chiamato, eccomi!». Allora Eli comprese che il Signore chiamava il giovinetto. Eli disse a Samuele: «Vattene a dormire e, se ti si chiamerà ancora, dirai: Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta» . Samuele andò a coricarsi al suo posto. Venne il Signore, stette di nuovo accanto a lui e lo chiamò ancora come le altre volte: «Samuele, Samuele!». Samuele rispose subito: «Parla, perché il tuo servo ti ascolta». Samuele acquistò autorità poiché il Signore era con lui, né lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole. 

Seconda lettura: 1 Cor 6, 13c-15a. 17-20 
Fratelli, il corpo non è per l'impudicizia, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo. Dio, che ha risuscitato il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza. Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? Prenderò dunque le membra di Cristo e ne farò membra di una prostituta? Non sia mai! Ma chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito. Fuggite la fornicazione! Qualsiasi peccato l'uomo commetta, è fuori del suo corpo; ma chi si dá alla fornicazione, pecca contro il proprio corpo. O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo! 

Vangelo: Gv 1,35-42 
In quel tempo, Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l'agnello di Dio!». E i due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: «Che cercate?». Gli risposero: «Rabbì (che significa maestro), dove abiti?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui; erano circa le quattro del pomeriggio. 


Oggi il tema è “la chiamata”!
Nel suo misterioso amore per noi Dio ci ha scelti.
Forse qualcun altro lo avrebbe saputo servire meglio.
Ma Lui ha voluto noi. E ci domanderà conto di ciò che ci ha dato!
Lui ci ha scelti per stare insieme come per gli Apostoli, mistero d’amore, dono infinito.
Ogni vocazione è un impegno d’amore.
E noi, da questo incontro dobbiamo trovare forza perché la Sua vita entri in noi profondamente!

Il Vangelo di questa domenica racconta del primo incontro di Gesù con alcuni dei suoi futuri discepoli.
 “Cosa cercate”? Dice così Gesù.
 E, forse, sarebbe meglio dire, come vedremo in seguito: “Chi cercate”?

Giovanni e Andrea sono le due prime vocazioni; abbandonano il più grande dei profeti in terra, per seguire l’unico Messia.
Ognuno ha il suo compito in una vocazione. Qui parliamo di due giovani pescatori, discepoli di Giovanni, tirati su dalla rude scuola del Battista, abituati all'austerità e alla preghiera. Gesù li sceglie: uno, Andrea, imiterà il Cristo crocifisso, l’altro, Giovanni, sarà il confidente degno di prendere in consegna, sotto la croce, il tesoro grande che è Maria Santissima.

L’”agnello di Dio” alla loro domanda: “Rabbì dove dimori?”, rivolge loro un invito: “Venite e vedrete”. Pare vederlo sorridente, Gesù, che non risponde dando indicazioni ma chiede di andare con Lui.
Alle quattro del pomeriggio la vita dei due muta completamente. Quell'ora sarà indimenticabile per i due discepoli, fulminati da un incontro magnifico e misterioso.

È ciò che accade a chi incontra davvero Gesù! I due erano già consapevoli, prima di parlare con il Messia, dato che non pongono quesiti banali, tipici di chi non ha idee chiare, ma l’unica domanda che tutti noi vorremmo fare a Gesù, quella domanda che da oltre duemila anni si pone ogni persona che accoglie davvero il messaggio evangelico:
Dove abiti Signore? Dov'è possibile incontrarti per vivere con te, nella perfetta intimità, nella assoluta comunione.

Dov'è Dio?
 Possiamo scoprirlo solo se abbiamo il cuore del pellegrino, se diventiamo disponibili a cambiare vita all'istante, proprio come fanno gli apostoli che lasciano tutto alle spalle, se cambiamo vita senza troppe storie, convinti da una parola, da uno sguardo che conquista. Forse anche noi avremmo bisogno di un Giovanni Battista, di qualcuno che ci mostra l’agnello di Dio, di un testimone credibile che ci indirizzi.
Perché, lo sappiamo, Gesù, anche a noi, chiede: “Cosa cercate”?

Sicuramente risponderemmo: gioia, felicità, vera pace del cuore e sapienza dell’anima.

Lo spunto di questa meditazione allora è: Dove trovare la felicità?
Forse nei beni terreni dell’amore, del piacere, del denaro, del successo o del potere?
Sappiamo in cuor nostro di non poterci appoggiare a queste cose effimere che, al massimo, possono darci ebbrezze passeggere, perché nel tempo andranno perdute.
Ecco che diventa chiaro che la ricerca non è in qualcosa ma in qualcuno. Gesù non ci propone un qualcosa ma Lui stesso.

Preghiamo per far si che la nostra ricerca di vita consista nel costante desiderio di prendere dimora accanto a Dio.

L’affascinante racconto della vocazione di Samuele, colpisce sempre per la costruzione e la suspense della storia. La madre lo aveva condotto, sin dalla giovane età, al santuario di Silo, lì dove era custodita l’Arca dell’Alleanza, lo aveva affidato a Eli il sacerdote, per consacrarlo al Signore. Mentre dorme il ragazzo viene svegliato per ben tre volte da una voce che lo chiama. Anche il sacerdote, ormai con il cuore indurito e lontano da Dio, impiega molto per capire la natura della voce.
Dio chiama e noi ascoltiamo?
Il frutto più prezioso che produce l’uomo che ascolta è quello di rendere reale la Parola del Signore per se e per gli altri. Siamo pronti all’ascolto come Samuele, usciamo dall'abitudine di una vita senza sorprese.
Dio chiama ininterrottamente ma c’è qualcuno pronto ad ascoltare. In quel tempio, forse, occorreva l’arrivo del giovane Samuele perché la Parola fosse ascoltata.

Nella seconda lettura, Paolo parla alla comunità di Corinto.
Qui vi era un gruppo di cristiani che si credevano perfetti e maturi.
Di fronte al sesso propongono ascetismo completo, astinenza sessuale assoluta e incondizionata.
C’è qualcuno, al contrario, che parla di sessualità senza freni in nome di una pretesa irrilevanza rispetto alla salvezza data in Cristo.
Paolo chiede semplicemente coerenza con il fondamento della vita cristiana, la redenzione ricevuta: “Siete stati comprati a caro prezzo”, ricorda, alludendo al dolore patito dal Cristo crocifisso.
Non dobbiamo dimenticare, ricorda l’apostolo, che i nostri corpi sono membra del Cristo e che noi dimoriamo in Lui e Lui in noi.

Ecco l’esigenza di una vita che rifugga ogni genere di impurità, ogni disordine sessuale, ogni peccato contro il proprio corpo, tempio dello Spirito.

martedì 13 gennaio 2015

La debolezza che diventa fortezza!

L’uomo, secondo molti, non dovrebbe avere debolezze.

L’amore veicola la debolezza e per costoro diventa deleterio amare, rende vulnerabili, sensibili e fragili come vetro, scriveva il cardinal Ravasi.

C’è un fondo di verità in tutto questo: amare vuol dire soffrire, essere tormentati a ogni mancanza, opinione o idea discorde.
A volte la tormenta del cuore può diventare disperazione al punto da compiere gesti estremi.
Eppure, quanto sono belle e vere le parole di Ravasi che, con acume, paragona l’uomo privo di amore come un legno rinsecchito, morto.
San Paolo fa di più.
Paragona l’individuo non in grado di amare come un bronzo che non rimbomba, un cembalo stonato. 
Allora, viviamola tutta questa eroica, gloriosa e bella “debolezza dell’anima”. Amiamo fino a farci male, fino ad annullarci.
Dichiariamo al mondo e anche a noi stessi che ogni giorno che non amiamo, ogni ora o attimo in cui manchiamo in questo, ci sentiamo mostri, o, peggio, cadaveri in cammino.
Diventiamo portatori di vita.
Dove non c’è l’amore, portiamolo e nascerà la vita vera.
L’esistenza, anche la più grigia, diventerà luminosa, un prato fiorito al posto del deserto, una somma di giorni pieni di luce e non incolori.
Saremo continuamente nella sorpresa perché nell'amore è l’inizio e la fine di ogni vita.

Chi non ama rimane nella morte, urla quasi San Giovanni nella sua magnifica prima lettera detta dell’Amore!
Il grande teologo Bultmann gli fa eco:
 “Chi non ama non solo è preda della morte, ma diventa lui stesso morte, è un’omicida”. 
Verissimo!
Un’accusa drastica per ognuno di noi:
 Chi non ama rimane nella morte, scrive Padre Gasparino in un suo godibile libercolo.
I ricchi che hanno tutto, ma non amano? Cadaveri. I sapienti che sanno tutto, ma non amano? Cadaveri. I potenti che tutto possono, ma non amano? Cadaveri.
Il mondo non ha bisogno di morte ma di vita.

 Noi cristiani dobbiamo propagare la vita.
Troppa gente nasce, vive e muore nell’odio, perciò non nasce mai, né vive mai. È già morta! Bellissimo il pensiero di Bultmann che dice:
 “L’amore di cui si deve amare si fonda sull'amore di cui si è stati amati: dal suo amore per noi comprendiamo cosa sia veramente l’amore”. 

Amare non è chiacchierare, sbandierare sorrisi.
Amare è dare, anche quello che costa di più, dare noi stessi, la vita.
Cristo è il maestro dell’amore, lui ha dettato l’amore, lui ha mostrato l’amore, lui ha pagato l’amore. Solo sull’amore di Cristo si fonda l’amore del cristiano.
Certo è un modello esigente, che chiede tutto!

Scriveva S. Agostino:
“La carità è quella perla preziosa senza la quale nulla ti giova, qualunque cosa tu possegga. Se invece possiedi solo la carità, essa sola ti basta!”.
E ancora:
“Ognuno esamini le sue opere, se i rami delle buone azioni fioriscono dalla radice dell’amore o no”.