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martedì 30 settembre 2014

La libertà secondo San Francesco

Sono molti gli spunti di riflessione che si possono fare nel parlare di libertà e di come intendeva questa parola il serafico Padre Francesco.

Scriveva un filosofo dei primi del novecento che:
 “Per essere veramente liberi non ci vogliono sforzi, né essere giovani o tanto meno dover ragionare molto. Quello che manca è solo la capacità di muoverci fuori dagli schemi mentali che ci opprimono … Colui che pensa come marxista, non pensa, colui che pensa come musulmano non pensa, colui che pensa come cattolico non pensa”.

 In pratica siamo come schiavi delle ideologie, mentre un vero profeta che vuol portare il Regno di Dio ai fratelli deve elevarsi per aprire nuovi orizzonti.

In effetti a ben guardare, sembra proprio che l’uomo non possa fare a meno di essere in qualche misura schiavo di qualcosa o peggio di qualcuno.
Quasi sempre ci si lega volontariamente con pesanti catene, per poi lamentarsi della libertà perduta. Oggi si affida la propria vita a un’idea, a un obiettivo vitale e non si è quasi mai capaci di elevarci sopra gli schemi da noi stessi costruiti per essere liberi di volare, capaci di pensare qualcosa di nuovo. L’uomo abbina sempre la sua presunta libertà alla felicità, alla gioia.

La domanda da porci allora è:
Da cosa ci aspettiamo possa dipendere la felicità o meno nella nostra esistenza?
Quali strategie dobbiamo adottare per riempire il vuoto che avvertiamo di tanto in tanto nella nostra vita?

Per chi come me è francescano, diventa necessario rapportarsi a Francesco nel parlare di vera libertà e di autentica gioia.
Il poverello d’Assisi era un uomo davvero libero.
Perché? Facile, si era spogliato di tutto e non solo materialmente.
Era libero perché sapeva essere in ogni cosa e gioire di ogni cosa.
Il messaggio che lui ci manda, la strada che ci mostra per diventare veramente uomini e donne assolutamente liberi è quella di essere in grado di esistere nell'unica dimensione per cui vale la pena
esistere che è quella dell’amore.

La libertà vera esiste e passa attraverso quel piccolo libretto che si chiama Vangelo!

Padre Silvio, nostro assistente spirituale nella fraternità del Terz'Ordine di Teramo, ben rimarca in un suo scritto:
“Nella nostra vita è importante solo il Vangelo, non la persona che lo predica, né le sue forme, non l’interpretazione che ne danno. Importante è interpretare il messaggio personale che racchiude per ognuno di noi”.
Verissimo, possiamo sapere se la nostra vita di cristiani è giusta solo ascoltando Gesù.

San Francesco lo aveva ascoltato e sapeva bene quale fosse la cosa più importante nella sua ricerca della libertà e della gioia, quella che appassiona e deprime tutti noi, tormentandoci sempre, sin dall'inizio della nostra vita.
Il serafico Padre si aspettava che i suoi frati dessero esempi di santità, così da esaudire il suo desiderio, quello della conversione del mondo?
Certamente si, ma non era quello il suo più grande anelito che albergava nell'anima.
Francesco non cercava successo o riconoscimento.
Il suo scopo vitale era solo quello di riposare nel cuore di Dio.

Ecco la Perfetta Letizia!
Ecco la vera gioia, l’essere nel seno del Padre, sicuri di non essere mai abbandonato da Lui.

A ben guardare è l’unico desiderio che non genera paure, ansie, tensioni e delusioni. La base della sofferenza sono i desideri terreni.
Mettiamo tutte le energie nel raggiungere uno scopo, una cosa, una persona, ci attacchiamo come l’edera a questo smodato desiderio che invade l’anima e poniamo la nostra effimera felicità nel raggiungimento di un qualcosa, esaltandoci quando lo si ottiene e deprimendoci fino alla malattia quando non si possiede più.

In Francesco il respiro diventa così profondo e grande da accogliere ogni respiro del mondo, il nostro invece più che un respiro è un rantolo.

Qualcuno potrà obiettare:
 “Ma chi ci dice che questa sia la vera libertà. Io come posso gioire e sentirmi libero se ho sofferenza”?

In effetti Padre Silvio dice qualcosa di forte e di strano:
“Il dolore e la sofferenza esistono solo quando non li accetti … la radice della sofferenza è l’attaccamento, il desiderio … “.
Desiderio insano è quello di volere essere osannato da tutti, quello di voler possedere l’altro, di avere enormi capacità economiche e via dicendo.
Tutti dipendiamo da qualcuno o qualcosa dice Padre Silvio.

Cosa vera! Eppure pensiamoci bene!
Francesco da più di 900 anni chiama a sé milioni di persone aiutandole a cambiare e nel suo tempo non c’erano radio, tv, internet, twitter, face book, non c’erano smartphone, tablet, non c’erano uffici stampa. Francesco non era un pazzo o un eccentrico o un superman. Non era un professore universitario, un politico o un re, non aveva poteri. È stata solo una persona che a un certo punto della sua vita, e badate bene che è stata solo di circa 40 anni, è riuscito a vedere la straordinaria luce che sostiene il mondo.
Ecco che la sua fama però si diffuse dappertutto come una sorta di benefico tsunami, perché con lui c’era lo Spirito Santo che attraverso di lui entrava beneficando nella anime inquiete.

Un pochino come accadde al primo grande giornalista del mondo che fu Paolo di Tarso, evangelizzatore di tutti. Anche per lui il messaggio corse ben più veloce delle navi che prendeva o dei piedi che usava.
Ecco perché possiamo essere certi, di là dalla nostra fede, che la vera libertà, la vera gioia, risiede davvero nel seno di Dio.

Francesco è l’esempio di come per sempre si possa essere fonte di energia per gli altri, di rinnovamento per milioni di persone, anche dopo essere scomparsi.
Il messaggio che oggi siamo chiamati noi francescani a portare agli altri è che,
“Dobbiamo uscire dalla programmazione del mondo e svegliarci. 
Ci hanno programmato per essere felici o infelici secondo se si spinge il bottone della lode e della critica, creandoci confusione …”.
 Basta con l’essere anestetizzati dalle cose, frutto di una società sbagliata che ci preferisce addormentati piuttosto che svegli.
 Basta pensare che si possa essere felici perché si ha un naso bello oppure lo si opera per renderlo tale allo specchio.
La felicità non è essere magri o grassi o se la felpa che si indossa è firmata all'ultimissima moda. Tornare al Vangelo vuol dire liberarci dalla nefasta idea che il mondo sia dei furbi e dei forti.

Siamo noi francescani i primi a dover dare esempio di coerenza nella nostra vita con una diversa dimensione dell’esistere. Il male avanza fino a che lo facciamo avanzare, ma poi, davanti al bene, arretra e fugge via. Allora possiamo anche creare un impegno a partire da domani mattina:

Guardiamoci allo specchio, guardiamo i nostri occhi e cerchiamo di scorgere in essi la luce che spesso ovattiamo con la nostra tristezza immotivata.

Come diceva Susanna Tamaro in un suo scritto:
“La luce è dentro di noi. Ci aspetta da prima che noi nascessimo. Ci aspetta in fondo al cuore. Sta lì con pazienza e mitezza ad attendere che facciamo un passo per andarle incontro”.

giovedì 25 settembre 2014

XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Ezechiele 18, 25-28; Filippesi 2,1-11; Matteo 21, 28-32 

In quest’ultima domenica di settembre la liturgia propone il capitolo 21 del Vangelo di Matteo.
Si sta acuendo lo scontro tra gli scribi e i farisei da una parte e Gesù dall'altra.
Essi chiedono a Colui il quale è già osannato dalle folle come il “Messia”, da chi abbia ricevuto l’autorità per dire e compiere le cose che fa.
Il Cristo aveva appena agito nel centro stesso del culto, il tempio.
La sua provocazione non si era limitata ai trafficanti. Gesù denunciava le gravi incoerenze e aveva preso di mira anche la rispettata classe dei sacerdoti, rei di abusi e di mancanze ripetute di rispetto per il luogo sacro a Dio e per Dio stesso.
Aveva così scacciato con un furore strano per lui, i cambia valute e i venditori che avevano reso il cortile del tempio “una spelonca di ladri”.
Precedentemente si era registrato anche l’episodio del fico infertile, senza frutti e solo con foglie ai rami. Gesù lo aveva maledetto con la frase:
“Nessuno possa mangiare i tuoi frutti” (21, 18-19) e l’albero si era irrimediabilmente seccato.
Era il gesto simbolico con cui il Signore della vita rigettava Israele perché non aveva prodotto i frutti santi e buoni che chiedeva il Cielo!
La religiosità del popolo era arida. Gesù con l’audacia sconcertante della verità chiedeva e chiede anche oggi a noi di decidersi: O con lui o contro di lui.

Gesù, nonostante tutto questo, ammaestra le genti con tre successive parabole, la prima delle quali l’esaminiamo proprio in questa domenica.

Protagonisti sono due figli e, capiamo bene, chi sono: uno rappresenta il fariseo pieno di sé, sicuro di una condotta integra, l’altro il pubblicano, quello che in umiltà raccoglie comunque l’appello di Gesù alla conversione del cuore, al pentimento delle azioni nefande fatte in precedenza.
I presunti buoni sono quelli che hanno rigettato perfino i segni evidenti che Gesù ha compiuto davanti ai loro occhi, gli stessi che presto crocifiggeranno quel Gesù venuto a portare amore e giustizia agli abbandonati della terra.

Come esige qualsiasi parabola, anche questa interroga tutti noi. Anzitutto ci costringe a una revisione di vita e a riconoscerci nell'uno o nell'altro protagonista.
Il quadretto di vita familiare, d'altronde è semplice e molte famiglie possono riconoscersi in un pezzetto di situazione.
A volte un figlio apparentemente tranquillo, nasconde insoddisfazione grande, mentre ragazzi aspri si dimostrano in una data situazione, pieni di tenerezza e generosità.

La domanda è: Siamo farisei, convinti di poter fare tutto senza l’intervento di Dio? Siamo dei perbenisti formali che ci riempiamo di gratificazioni o siamo invece i ribelli, magari pubblicani capaci però di bontà senza interessi?
Ci crogioliamo soddisfatti nel nostro formalismo religioso vuoto interiormente o siamo capaci di essere segno per gli altri con le nostre opere?
E ancora …
Forse siamo di quelli che ascoltano la Parola, che ci piace intellettualmente, che gustiamo come un buon romanzo da leggere, vivendola fin quando la si legge ma non aderendo pienamente al messaggio che il Signore ci dona?
Tante persone religiose che popolano le nostre chiese non rappresentano i veri giusti. In realtà non fanno veramente il volere di Dio. Ipocrisia o sincerità nascosta sotto moti di ribellione?
Un invito quindi a non giudicare dalle apparenze il figlio apparentemente ribelle ma in realtà obbediente! Le parabole sono grandi appelli alla conversione, certo … ma domandiamoci se sappiamo cosa sia una conversione.
Ci si converte quando in verità diventiamo consci che tutta la nostra vita dipende da Dio, quando aneliamo a Lui, quando l’osservanza dei comandamenti è la fonte viva della nostra consistenza umana, della nostra gioia di vivere che riscopriamo anche nelle situazioni limite e nei vicoli ciechi della nostra storia.

Convertirsi è quando dal profondo del cuore facciamo nostro il grido del salmo 118, ad esempio: “Indicami Signore la via dei tuoi precetti e la seguirò sino alla fine … dammi intelligenza perché osservi la tua legge e la custodisca con tutto il cuore …”.
Siamo convertiti quando abbandoniamo gli schemi mondani e riconosciamo il disegno divino su tutti gli avvenimenti piccoli o grandi, significativi o insignificanti nella nostra giornata. Al contrario a volte pensiamo di poter fare bene senza Dio.

Ricordiamo l’episodio di Samuele che alla voce del Signore che lo chiama risponde: “Parla Signore che il tuo servo ti ascolta”. Noi invece diciamo: “Ascolta Signore che il tuo servo ti parla”.

 Allora diventa chiaro anche il senso delle parole contenute nell'oracolo di Ezechiele, prima lettura. Siamo capaci di discutere anche il modo di agire di Dio, lo definiamo poco retto. Il profeta, voce di Dio ci ammonisce che se il malvagio si allontana dalla giustizia muore. Se al contrario dovesse convertirsi dalla sua malvagità e compiere opere buone farà vivere se stesso. Torna il tema della grande misericordia di Dio che abbiamo spesso meditato.

La domenica ci regala anche la fantastica lettera di Paolo ai Filippesi di cui abbiamo già decantato la bellezza teologica.
Questo testo divino dovrebbe non solo essere meditato ma centellinato, decantato come gocce di ottimo vino.
È l’Inno cristologico all'Umiltà così come la lettera ai Corinzi, nel XIII capitolo è l’Inno all'Amore. Sono le pagine del Nuovo Testamento che raggiungono i livelli più alti.
Paolo pone quasi a confronto la carità che è il dono più grande dello Spirito Santo e l’umiltà, dote necessaria per potere amare.
Chi può insegnarci amore e umiltà se non Dio?

La storia della salvezza dell’uomo è intrisa dell’umiltà senza fine del nostro Dio che, sin dalla caduta nel Giardino dell’Eden, è corso sempre alla ricerca dell’uomo per la sua salvezza. Si è fatto pastore che cerca la pecorella smarrita dal gregge per ricondurla al buon pascolo, si è fatto padre che perdona le intemperanze di un figlio che lo abbandona per sperperare i suoi averi realizzati in una vita di lavoro, si è fatto padrone della vigna per indurci a essere tralci attaccati a lui e produrre buoni frutti. Ha voluto incarnare il Figlio, rendendolo “simile agli uomini nella condizione di Dio e non lo ritenne un privilegio ma svuotò se stesso e assunse condizione di servo, che si umilia fino alla morte e alla morte di croce …”.
Più volte Dio ha svelato la condizione divina del Figlio: Sul Tabor, dove trasfigurandolo, lo ha reso splendente; Nei ripetuti miracoli che hanno reso palese la sua potenza, rendendo chiara a tutti anche la dimensione della sua sapienza senza fine. Eppure ha insegnato all'uomo l’accettazione della croce in umiltà.
 A ben guardare l’umiltà di Dio si scopre anche nel continuo dono dello Spirito Santo che mette al servizio dell’umanità sbandata dal materialismo, per illuminare, consigliare e consolare. E noi? Abbiamo nel cuore un pizzico di umiltà? Portiamo questa dote all'interno della famiglia, del lavoro, nel servizio ai fratelli? Siamo fedeli a Dio accettando con umiltà le croci quotidiane o diciamo come nella prima lettura di Ezechiele che “non è retto il modo di agire del Signore”.

Ci rendiamo conto che nella sua Passione, Gesù si è fatto come lebbroso, reso impuro dai nostri vizi, per purificarci con la misericordia infinita del Padre?

Preghiamo nel chiuso delle nostre stanze con il salmo 24 di questa domenica e diciamo: “Ricordati della tua misericordia e del tuo amore che è da sempre … Insegnami i tuoi sentieri …”.

 Allora si che potremo dire come l’apostolo Pietro nella sua lettera (1, 5-6): “Umiliatevi sotto la potente mano di Dio, affinchè Egli vi innalzi a suo tempo”.

sabato 20 settembre 2014

XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO A

Isaia 55, 6-9; salmo144; Lettera ai Filippesi 1,20c-24.27a; Matteo 20, 1-16 

Se dovessimo scegliere dalla liturgia di questa domenica del Tempo Ordinario una frase simbolo, potremmo trarla dal Libro di Isaia, prima lettura in cui si proclama che:
“I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie”.

Il profeta di cui non si conosce la vera identità e che porta all'umanità la parola di Dio, attraverso il secondo libro del grande Isaia, secoli prima del Vangelo di Matteo, esprimeva già in quel tempo lontano un concetto difficile da metabolizzare.
La società di oggi è basata sulla retribuzione dei lavoratori e regolata dal principio di meritocrazia. La frase precedente potrebbe fare il paio con quella finale del Vangelo dove si legge:
“Così gli ultimi saranno i primi e i primi, ultimi”.

La parabola degli operai chiamati a ore diverse a lavorare nella vigna, risulta a prima lettura abbastanza ostica.
Per noi la retribuzione deve avere una logica di stimolo per chi lavora di più in modo da assicurare l’efficienza dell’azienda, questo secondo normali criteri economici e sindacali.
Ma le vie del Signore sono diverse come recita ancora il primo bellissimo brano della liturgia della Parola:
“Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie …”.

A ben guardare ci sarebbe un altro importante criterio da rispettare oltre quello normale del maggior impegno profuso ed è quello di assicurare una vita dignitosa al collaboratore di un’azienda e alla sua famiglia. Ne erano ben convinti al tempo di Gesù in Palestina.
La retribuzione era di un denaro al giorno e il padrone della vigna offre questo compenso sia al primo che all'ultimo arrivato tra gli operai, affinché possano vivere dignitosamente.
Immaginiamo quindi la scena presa dal vivo di disoccupati assunti a lavoro.
Questo padrone è reputato ingiusto, mentre al contrario come spesso accade nella Parola, è piuttosto generoso. Il padrone è Dio. Noi siamo gli operai ingrati.
Ricevuto il salario pattuito, ad esempio, ci meravigliamo come quelli della parabola, che il padrone riservi lo stesso trattamento a chi si converte un minuto prima di morire. Anche noi pensavamo di meritare di più.
Piuttosto che gioire per la bontà del padrone ci lamentiamo per la presunta ingiustizia. È un retaggio di questa società e dal trionfo del capitalismo selvaggio e sfrenato.
Non leggiamo la parabola secondo parametri sociali odierni, altrimenti chi schiereremmo con i lavoratori che hanno faticato per più ore. Dio nel Vangelo ci dice una frase illuminante:
“Sei forse invidioso perché io sono buono?”.

Il Signore, elegantemente, ci vuol dire che la religione non è quella del fariseo osservante e zelante, ma è quella di chi, pubblicano, prostituta e peccatore, si pente davvero e chiede misericordia. Pensiamo al riferimento del fratello adirato perché il figliol prodigo è tornato e il padre uccide un capretto per far festa.
Il nostro è un senso di giustizia opportunista. Gesù, distante mille anni luce dalla logica comune, ci dice che tutti hanno un salario intero perché tutti devono far parte a pieno diritto della medesima gioia del Regno.
 A noi che ci crediamo i privilegiati insegna che la sua azione è identica per tutti, giusti e peccatori. Nel pensiero del Signore non ci sono esclusi, emarginati, nessuno può rivendicare privilegi dati da anzianità e merito. La grazia è un dono e non c’è posto per gelosie e ripicche tra di noi figli di Dio. Il premio che il Signore dà a tutti gli operai del regno dei cieli è la salvezza. E la salvezza non è ricompensa contrattuale, è invece iniziativa divina fatta di amore in cui siamo tutti invitati! Non si può dare due salvezze a chi è arrivato prima! Neanche mezza a chi è in ritardo. La salvezza è una!

E noi, condividiamo nel profondo del cuore questa bontà del Signore?
Gioiamo anche noi per la salvezza degli ultimi arrivati o puntiamo il dito reclamando diritti per noi stessi?
In fondo, questo ci aspettiamo dal nostro Creatore, come recita il bellissimo salmo di oggi, n.144: “Misericordioso e pietoso, lento all'ira e grande nell'amore … Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature …”.
E adesso, occorre fare attenzione. Dio si serve di noi come collaboratori della sua opera di salvezza e ci chiama a servizio in varie ore, con tempi e modalità diverse.
Noi non dobbiamo impegnarci per un salario, per un premio futuro e non dobbiamo stare a guardare cosa viene dato in premio ad altri.
 Noi siamo solo gli “umili operai della vigna del Signore”, dobbiamo operare con gioia disinteressata a che la comunità, dove operiamo, sia aiutata dal nostro esempio, dalla nostra abnegazione. 

Confrontandoci con il Vangelo dobbiamo chiederci:
 “Facciamo tutto in funzione di un corrispettivo immediato?
Cosa cerchiamo realmente quando ci mettiamo a servizio dei fratelli. È un vanto per noi donare noi stessi nella vigna del Signore?
O, al contrario, cerchiamo il nostro interesse, vogliamo essere consacrati, affermare il nostro Io? Forse dobbiamo ancora imparare a gioire del bene che Dio realizza attraverso i nostri fratelli e a goderne come se fosse donato a noi, superando gelosie e opportunismi.
 Con questa Parola di oggi, il Signore ci chiede di uscire da una logica economica per entrare in una logica di generosità perché, in un altro passo di Matteo, capitolo 5, si dice:
“Che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e i buoni e fa piovere su giusti e ingiusti”.
La parabola è un canto di grazia e di infinito amore del nostro Creatore.

La seconda lettura è tratta dalle lettere di San Paolo Apostolo, il più grande evangelizzatore del mondo. Filippi era una regione della Macedonia abitata in prevalenza dai discendenti delle legioni di Cesare che aveva loro assegnato per il servizio armato prestatogli.
La comunità qui era molto cara all'Apostolo.
A quella comunità Paolo scriverà di aver accettato tutte le avversità durante i suoi viaggi apostolici: “So vivere nella povertà, come nell'abbondanza; sono allenato a tutto, alla sazietà come alla fame …”.
In questo diario dei suoi sentimenti, con tenerezza, Paolo insegna che morire è un guadagno così da entrare in perfetta comunione con Cristo. Ma, persuaso che la sua vita in quel momento era importante per i suoi fratelli, rimane combattuto perché deve amare la vita e annunciare il Vangelo, ma contemporaneamente sente vivo il desiderio di una morte prematura per unirsi totalmente, faccia a faccia col Cristo.
 “Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto non so davvero che cosa scegliere …”.
Paolo si affida quindi alla preghiera dei Filippesi e si augura che Cristo sia magnificato nel suo corpo, sia mediante la vita, sia mediante la morte:
“Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno …”.
L’Apostolo delle genti, il grande evangelizzatore, esorta tutti noi a specchiarci in Cristo e, come abbiamo proclamato nel giorno dell’Esaltazione della Croce, domenica scorsa, ci chiede di avere gli stessi sentimenti di Gesù, in forza dei quali Egli, pur essendo di natura divina non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo condizione di servo.
Meditiamo quanto sia diverso il comportamento degli operai offesi dal salario uguale agli altri. Paolo in un passo di una lettera al fidato Timoteo, nel 63 dopo Cristo, dirà che Cristo non fa discriminazioni alcuna tra uomo e donna, tra servo e padrone, tra schiavo e uomo libero, neppure, dirà tra Giudeo e Greco!

Per noi il messaggio è forte e chiaro.
Chi crede sul serio in Gesù non ha bisogno di fare rivoluzioni per assicurare a ogni persona umana giustizia e dignità.
Il guaio dei tempi nostri è che la fede non determina più il modo di pensare e agire nella vita quotidiana.

giovedì 11 settembre 2014

Esaltazione della Santa Croce: domenica 14 settembre 2014

                      Numeri 21, 4-9; Filippesi 2, 6-11; Giovanni 3,13-17; salmo 77 

L’Esaltazione della Santa Croce è una festa antichissima.

Secondo la tradizione, Elena che era la madre dell’imperatore Costantino, durante uno dei suoi frequenti pellegrinaggi nei luoghi santi, siamo intorno al 326, rinvenne la vera croce di Cristo, o meglio una porzione di essa.
Felice come non mai, la nobile donna volle portarla a Roma e ivi fondare una chiesa che la custodisse: la basilica della Santa Croce di Gerusalemme.
La parte del legno rimasta nella città santa ebbe vita travagliata. Fu bottino di guerra nell'occupazione di Gerusalemme, anno 614, andò perduta per anni e infine poi recuperata al culto, nella vittoriosa Crociata contro i Persiani.

L’”Esaltazione” per il Nuovo Testamento, equivale alla Risurrezione.
Il Cristo crocifisso viene esaltato nello splendore della sua gloria divina e la croce, legno innalzato al centro della vita cristiana, è il simbolo dell’amore trionfante e gratuito che Gesù dona a tutti noi.

La liturgia della Parola di questa solennità, è ricchissima.
Cercheremo di focalizzare i punti salienti.

La Prima lettura è tratta dal Libro dei Numeri.
La scena si svolge tra le pietraie di una steppa desolata.
Nel deserto il popolo d’Israele rischia l’estinzione a causa dei serpenti velenosi che, nascosti tra le rocce, mordono le gambe degli uomini in cammino, uccidendoli con il loro veleno.
È la punizione per aver rumoreggiato, ingrati, contro Dio che, nella liberazione dall'Egitto, li ha cibati di manna nel cammino desertico.
Mosè prega il Signore affinché perdoni il popolo che ha peccato.
Dio, come sempre accade alle invocazioni dei patriarchi, si muove a compassione e ordina di realizzare un serpente di bronzo, autentico antidoto contro il veleno dei potenti animali striscianti. Chi avesse guardato questo simbolo posto su di un’alta asta, avrebbe avuto salvezza.

Eccoci al primo riferimento.
La salvezza non viene dal guardare l’oggetto, chiaramente, ma dal contemplare il legno della croce. Al serpente, innalzato su di un’asta per essere ben visto da tutti, corrisponde il Salvatore innalzato su di una croce per la salvezza di ognuno di noi.
Con lo sguardo della fede, la croce, albero dell’esistenza, diventa messaggio di vita eterna per colui che contempla e crede al Cristo elevato in alto.

Nel prefazio della Celebrazione liturgica, il sacerdote dirà:
 “Nell'albero della croce tu hai stabilito salvezza per l’uomo, perché donde sorgeva la morte di là risorgesse la vita …”.

Prima di esaminare il bellissimo Vangelo giovanneo che riporta un piccolo stralcio del dialogo notturno tra Gesù e Nicodemo, analizziamo il punto centrale della seconda lettura, tratta dalla lettera di San Paolo apostolo ai Filippesi. 
Siamo davanti a uno dei testi sublimi per eccellenza delle Sacre Scritture.
Un inno che Paolo dedica al grande e insondabile mistero di Gesù, il Figlio di Dio,
Colui il quale sale sulla croce per la salvezza di tutti. Il più grande evangelizzatore di tutti i tempi in ogni sua lettera ha regalato insegnamenti, esortazioni, elogi e rimproveri a coloro che con fatica, imparavano a essere seguaci della Croce di Cristo.
“Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno”. (Fil 21)

Ai filippesi la loro origine romana procurava ambizione e vanagloria. Questa regione della Macedonia era abitata in prevalenza dai discendenti dei legionari di Cesare, che l’aveva loro assegnata per ripagarli dei servizi di guerra.
Siamo intorno all'inizio dell’anno 51 e e gli uomini di Filippi, sono i primi europei convertiti.
Paolo, nel suo secondo viaggio missionario, li ammonisce a tenere in conto l’umiltà. Ma non li aggredisce di petto, parla loro con sentimenti di amore.
L’umiltà non offende la dignità della persona, non ha offeso Cristo, tanto meno offenderà l’uomo. Paolo esorta a specchiarsi in Cristo.

Bellissima l’esortazione: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo”.
E, affinché le sue parole non siano solo un bel discorrere, l’apostolo delle genti descrive perfettamente questi sentimenti.
Anzitutto non considerare nostro merito quello che siamo e quello che abbiamo.
Il merito è del nostro Dio e Gesù ci insegna che: “non ritenne un privilegio l’essere come Dio”.
Poi, ci viene chiesto di essere capaci di spogliarci del nostro egoismo, “assumendo la condizione del servo” e verso chi se non verso i nostri fratelli?
Infine, l’essere capaci di abbassare la superbia dei cuori, fino a umiliarsi facendosi ubbidienti al progetto di Dio e “fino alla morte di croce”.

Questo è il programma di vita, impegnativo ma affascinante che Paolo ci presenta, sapendo che, seguendolo radicalmente, acquisteremo stima prima sulla terra da parte delle persone che ci avranno incontrato e, cosa più importante, stima da Dio quando saremo davanti a Lui nei cieli!
Ecco il grande cammino dei santi che risplendono nella gloria dell’Altissimo.
Un programma bellissimo che si può cercare di realizzare anche in parte, solo aiutandoci con la preghiera assidua e mettendoci nelle mani amorevoli di Dio.
Rivestirsi di tali virtù sembra impossibile ma proponendoci una meta da raggiungere, con l’aiuto della preghiera tutto potrà essere possibile da raggiungere.

Nel Vangelo di Giovanni, Gesù in un colloquio con il maestro della legge, Nicodemo, annuncia la sua prossima morte in croce.
Subirà lo strumento crudele che i Romani riservavano ai malfattori.

Gesù paragona Lui, Figlio dell’uomo, innalzato da terra, al serpente di bronzo mosaico. Sulla croce infame, risplenderà per sempre l’amore senza limiti di Dio per noi, così da permetterci di partecipare alla stessa vita divina.

Riusciamo quindi a capire quale dignità riveste ogni individuo?
Quale preziosità è ognuno di noi per il suo Creatore?
Non siamo stati noi ad amare Dio ma è Lui che, mandando in croce il Figlio, vittima di espiazione per i nostri peccati, dimostra l’ampiezza non definibile dei suoi sentimenti verso di noi, umili e inutili creature.
Con la croce Gesù ci ha detto tutto e ci ha resi partecipi della vita della Trinità, comunicandoci l’amore del Padre e donandoci il suo Santo Spirito.
A noi il compito di interrogarci sulle motivazioni profonde che muovono le nostre azioni verso Dio. Aderiamo a Lui esteriormente o siamo rinnovati interiormente?

Domandiamoci se davanti a tanto amore che scaturisce dal legno della croce, rispondiamo con scelte coerenti o se ci facciamo condizionare dalle mode, dalla mentalità mondana perdendo di vista il vero bene.
Siamo coerenti e ci lasciamo plasmare dalla Parola o il cuore è inquinato da desideri contrastanti? Aderiamo alla croce profondamente, liberi e convinti?


Preghiera 

Signore, sei salito sulla croce, nella sofferenza, per salvarmi ma io sono una povera persona: 
vorrei essere grande e sono piccolo, 
vorrei essere buono e sono cattivo, 
vorrei essere generoso, eppure sono pieno di meschinità, 
vorrei avere tanta fede e non ne ho. 

Aiutami tu!