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sabato 29 novembre 2014

L'ATTESA: Prima domenica di Avvento ANNO B

Isaia 63, 16 b-17.19 64, 1-7; 1 Corinti 1,3-9; Marco 13,33-37 

Dal Libro di Isaia: 
Tu, Signore, tu sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore. Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema? Ritorna per amore dei tuoi servi, per amore delle tribù, tua eredità. Siamo diventati come coloro su cui tu non hai mai dominato, sui quali il tuo nome non č stato mai invocato. Se tu squarciassi i cieli e scendessi! Davanti a te sussulterebbero i monti. 

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi: 
Fratelli, grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo. Ringrazio continuamente il mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, perché in lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della scienza. 

Dal Vangelo secondo Marco: 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: "State attenti, vegliate, perché non sapete quando sarà il momento preciso. E` come uno che è partito per un viaggio dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vigilare. Vigilate dunque, poiché non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino, perché non giunga all'improvviso, trovandovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: Vegliate!". 


L’anno liturgico ciclo A si è appena concluso con l’invito pressante alla vigilanza e alla preghiera perché non è dato sapere quando il Signore ci chiamerà.
 Anche all'inizio dell’anno B e nella prima domenica di Avvento siamo invitati, attraverso le parole dell’evangelista Marco, a “vegliare”, vigilanti nell'attesa.
Questo è il tempo di attesa della nascita di Gesù e dobbiamo prepararci ad accogliere degnamente il Verbo che si incarna in mezzo a noi, tenendo fermo il pensiero sul Signore che viene. Possiamo farlo ritrovando il gusto della preghiera e nell'ascolto della Parola di Dio. Solo così possiamo instaurare un tempo di colloquio intenso con il nostro Creatore.
Attraverso la preghiera e la meditazione possiamo vivere costantemente la tensione buona dell’attesa, tenendo accesa in noi la lampada del desiderio del Signore. L’attesa operosa è foriera di cose nuove e sante.
Nella nostra vita ci prepariamo sempre ad un evento nuovo per poter poi godere di quella situazione quando arriva.
È stato così per l’attesa di un figlio, per il nostro matrimonio, o quando abbiamo programmato una vacanza tanto agognata.
Mesi di pensieri, sogni, desideri, anticipando gioie, gesti, parole e situazioni. È così anche per l’incontro con la persona amata, Gesù Salvatore.
Viviamo nella fiducia che esso sarà realtà.

Ecco l’invito dell’Avvento e del brano evangelico di Marco.
L’attesa ci impegna a orientare le nostre scelte funzione dell’incontro per dare senso e compimento al nostro agire. Qualcuno potrà vedere nelle parole evangeliche:
 “Vigilate perché non sapete quando sarà il momento preciso”, qualcosa di minaccioso e oscuro. Tutt'altro!
Il giorno e l’ora non ci viene detta semplicemente perché ogni momento della nostra esistenza è quello buono per aprirsi al Vangelo e impegnarvi la vita.
Non dobbiamo essere condizionati o, peggio, ossessionati dalle scadenze. Gesù ci vuole viventi e profondamente impegnati nell'ascolto e nel lavorio incessante per edificare il suo Regno sin dalla nostra vita terrena.
L’attesa dell’appuntamento con la salita al Cielo, nel Regno dei Beati, non deve darci ansia, trepidazione, ma gioia immensa e fiducia in Dio.

C’è un secondo insegnamento nel vangelo di Marco. Ci ripete di stare attenti.
Noi prestiamo attenzione a mille cose nella vita, al denaro, alla salute, al divertimento, alla guida in auto, a curare i nostri interessi.
Forse non rimane molta di questa attenzione per il nostro prossimo e per il Signore! Lui passa accanto a noi, nelle sembianze di un povero, di un sofferente e noi, presi dagli affanni e dalle attenzioni di cui sopra, non ce ne curiamo.
Anzi, siamo preda di un pessimismo profondo e non apprezziamo davvero la vita come dono. Riscopriamo quindi la virtù per eccellenza dell’Avvento: la speranza, il guardare con fiducia il futuro e con realismo il presente.
Dio è legato a noi a doppio filo, non può rimanere lontano dal suo servo

La prima bellissima lettura, tratta dagli scritti di Isaia, capitolo 63, ci porta a scoprire l’attesa desiderosa del popolo di Israele per le venuta del Messia, promesso e annunciato come prossimo dai profeti.
C’è un momento di grande intensità che è l’invocazione accorata del versetto 19: “Se tu squarciassi i cieli e discendessi”.
Ancora profonde le parole cariche di desiderio:
“Ritorna per amore dei tuoi servi … mai si udì parlare di un Dio che abbia fatto tanto per chi confida in lui …”. I
l popolo è consapevole del suo peccato!
Chiede perdono con fiducia e dice:
 “Tu sei nostro Padre, noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma, tutti noi siamo opera delle tue mani”.
 Queste bellissime parole, tutte da rileggere e meditare, ci offrono un suggerimento per la nostra preghiera e contemplazione:
 “Tu, Signore sei nostro Padre”. Tu hai voluto la nostra vita, ci hai affidato i fratelli.
Fa che chiunque venga a noi se ne vada sentendosi meglio perché ha visto la Tua bontà nei nostri occhi.
Non lasciarci cadere in balia del peccato, del sonno spirituale.
Fai che siamo capaci di essere autentici nel servizio, di saper ascoltare l’altro con pazienza, lasciandogli la possibilità di parlare.
Solo nell'atteggiamento dell’umiltà di ascolto potremo scendere dal nostro piedistallo per saper bussare con discrezione nella vita degli altri.
Tu che ci chiami servi, donaci di riconoscerci in Te che ti sei fatto servo per noi. La seconda lettura, tratta dalla prima lettera ai Corinzi di San Paolo, trova l’Apostolo che si rallegra con i cristiani di Corinto, comunità toccata dalla grazia di Dio in abbondanza di doni, perché vivono bene e intensamente l’attesa della venuta del Signore, il quale, quando verrà, li renderà irreprensibili, santi e immacolati.

Possa veramente Gesù, nel venire, fare questo per tutti noi! Purtroppo per noi l’attesa non piace molto al mondo di oggi. Nessuno pensa all'attesa come a una gioia. L’attesa si identifica come perdita di tempo, noia infinita, qualcosa da fuggire. È la cultura del nostro tempo fatta di velocità, di azione. Il verbo predominante è “agire”. Riscopriamo in questo tempo forte, la gioia di lasciare agire in noi quel Dio che non ci abbandona mai. Lasciamo agire la provvidenza, abbandoniamo il controllo esasperato del nostro futuro e viviamo l’attimo presente, l’unico che ci appartiene veramente, donandoci con la preghiera a Dio e con le opere ai fratelli.

Allora si che il nostro Avvento ci porterà cose nuove che andranno oltre le previsioni o l’immaginazione di ognuno di noi.

Ecco che San Paolo sembra dirci, attraverso le parole immortali dedicate ai fratelli Corinzi, che di Dio possiamo fidarci senza paura alcuna. Anche a noi sarà data la grazia che hanno ricevuto i Corinti e ci sarà donata la piena comunione con Lui.
Ma dobbiamo vivere intensamente e profondamente l’attesa.

D'altronde, l’Avvento ci ricorda in primo luogo che il nostro non è un Dio chiuso in se stesso ma è un Dio che viene verso di noi. Ci raggiunge con i Sacramenti, anche negli eventi della nostra vita, nelle prove e nelle sofferenze.
Come potrebbe essere altrimenti? Egli ci ha creato e ha cura di noi, siamo suoi, gli apparteniamo e ci ama profondamente.
 Cogliamo l’occasione per meditare, in questa prima di Avvento, che il Salvatore viene sotto le sembianze dei fratelli più piccoli.

Ecco il senso dell’”Evangeli Gaudium” di Francesco:
 “Usciamo con coraggio dalle nostre comodità, per raggiungere le periferie del mondo, lì dove i fratelli vivono nelle difficoltà”.
Solo così l’Avvento ci legherà profondamente a Gesù che viene. Solo così saremo servi fedeli. Il servo, secondo il Vangelo è uno che scrive sulla sabbia quello che dona e incide sulla pietra quello che riceve, è colui che appartiene alla razza di quanti, dopo aver fatto il loro turno dicono:
“Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”: (Luca 17,10)
Viviamo purtroppo in un lungo inverno di sentimenti inariditi e di narcisismo asfissiante, i cui miti sono l’auto realizzazione a ogni costo, l’auto gratificazione a qualsiasi prezzo. Noi camminiamo contro corrente.
Riscopriamo il Natale a cui ci prepariamo pensando che c’è più gioia nel sentirsi amati che nel venire compensati.

domenica 23 novembre 2014

Cristo Re dell'Universo: ultima domenica del T.O. Anno A

Prima Lettura – Ez 34, 11-12.15-17 Salmo Responsoriale – Sal 22 Seconda Lettura - 1Cor 15,20-26.28 Vangelo – Mt 25,31-46

Uno dei problemi che assillano l’umanità è che tutti sognano di essere grandi, di poter essere dei vincenti.
Il simbolo di questa potenza, della forza così agognata può essere un leone. Non di certo una pecora! Un giorno, un caro amico non credente, mi chiese se non fosse offensivo per un cristiano essere apostrofato col nome di pecora.
 Il salmo 22, in questa domenica del Nostro Signore Gesù Cristo, Re dell’universo, parla proprio di noi che siamo pecore e che ci affidiamo al buon Pastore che non ci fa mancare nulla e che ci porta su pascoli erbosi e tranquilli.
La pecora, animale pavido, senza nerbo, che ha bisogno di assistenza e guida, non può nella mentalità del mondo, essere simbolo di vincente.
La società con i suoi idoli non ammette debolezze.
Eppure questo salmo è attribuito a un re! Davide è un sovrano che avverte il desiderio di essere guidato e consigliato da Dio.
Chiede al Signore di essere aiutato per vincere i suoi nemici.
Il mio amico, certamente non illuminato dallo Spirito Santo, non riusciva a capire che nel profondo di ognuno di noi giace supina una piccola pecorella e che tutti a volte sentiamo l’esigenza di essere guidati per poter poi, a sua volta, guidare gli altri.

Abbiamo un senso di appartenenza, così com'era insito nel re Davide quando compose il salmo bellissimo.
Gesù è il Re dell’universo ma si appoggia completamente a Dio.
Noi confidiamo in lui come la pecora confida nel pastore. L’animale non si pone il problema di dove recarsi a pascolare. Pensa a tutto il pastore.
Le paure per il futuro sono in chi non ha il senso dell’appartenenza.
Dobbiamo solo scegliere il pezzetto di terra su cui brucare in tranquillità, nella gioia, in sicurezza. Noi pecorelle di Dio, apparteniamo al pastore ma siamo libere di pascolare.

Sul grande fondale dell’anno liturgico A, che oggi salutiamo per iniziare il tempo di Avvento, si stende una solenne rappresentazione del Cristo Re dell’universo che spesso abbiamo ammirato in molte absidi di grandi basiliche, assiso nel trono dei Cieli che abbraccia l’intero cosmo, ammantato di splendore. In una bella meditazione del cardinale Ravasi, si legge che “… il simbolo regale si sposa idealmente con quello pastorale tanto è vero che già Omero chiamava i sovrani, pastori delle nazioni”.

Nel caso di Cristo, come al solito, si stravolge la visione prettamente umana:
I re, la storia insegna, riescono a regnare solo mandando a morte qualcuno.
Gesù è il Re che affida se stesso al martirio per il suo popolo. E nel suo regno, non si contorna di corrotti cortigiani, di subdoli consiglieri, di potenti e prepotenti, ma di uomini illuminati, in grado di vivere la Parola:
“Chi vuol essere grande si faccia servo, chi vuol essere il primo si faccia ultimo”: (Marco 10, 42-44).

La regalità trionfale che si aspettano gli uomini stolti, viene soppiantata dalla visione di una regalità strana, inconsueta, misera, non legata al potere ma all'amore.
Dovrebbe essere una regalità che fallisce, secondo i canoni della storia, è invece un regno che si prende gioco del tempo e che testimonia la Verità, eliminando ingiustizie e violenze. E allora la Chiesa, opportunamente, apre la liturgia della Parola con la luminosa pagina di Ezechiele, questo grande profeta e sacerdote vissuto durante il periodo della caduta di Gerusalemme e della prima deportazione.

Il Signore appare come il Pastore del suo popolo in esilio, capace di dare speranza perché la Parola di Dio non viene mai meno. Il pastore non è distaccato, assente, sfruttatore delle sue pecore. Un trionfo di verbi nella lettura, indica la premura del sovrano Dio verso il popolo:
“cercare, curare, seguire passo dopo passo in rassegna, far riposare, cercare la perduta, ricondurre la smarrita, fasciare la ferita, curare la malata, pascere …”.

È grande il progetto di salvezza che Dio ha disegnato per tutti noi!
Ne fanno parte coloro i quali hanno la forza di seguire le Beatitudini, dando cibo agli affamati, vesti agli ignudi, abbracci ai carcerati, amore per i fratelli scomodi, speranza per chi è malato, misericordia per chi sbaglia.
Al contrario, non ci può essere salvezza per chi ignora il grido della sofferenza nei fratelli, per chi vive per se stesso, sovrastato da gretto egoismo. La frase finale del brano di Ezechiele ci conduce dentro al Vangelo di Matteo dove, come in un dipinto di Caravaggio, gustiamo la grandiosa scena del Re Pastore che diventa giudice e dirà la frase che appare terribile per chi è in difetto di amore verso gli altri: “Ecco, io giudicherò tra pecora e pecora, tra montoni e capri”. Così come il grano verrà separato dalla zizzania destinata al fuoco, così le pecore saranno divise dai capri, simbolo dell’orgoglio che domina la mente degli uomini! Si svela ai nostri occhi lo scenario grandioso del Giudizio Universale.
L’ambiente che si immagina è maestoso: il trono, gli angeli in corte celeste e tutti noi convocati per il giudizio. Ecco che in noi la Parola di oggi, palesandoci una sentenza sulle nostre opere, ci invita alla scelta definitiva e decisiva per far parte del progetto di salvezza.
Dio ci attende, attende la nostra conversione.
Non è distante, relegato nei suoi palazzi celesti, al contrario è accanto a noi, ci sprona, fascia le nostre ferite, ci guida, ci riconduce sulla giusta via.

E allora, è necessario mettersi in gioco. Meditiamo sul fatto che siamo troppo convinti del nostro buon agire.
Ci adoperiamo davvero per realizzare, a seconda dei bisogni presenti nella realtà in cui viviamo, opere di misericordia concrete e continuate?
Sappiamo “sporcarci le mani” per servire davvero i bisognosi? O evitiamo di agire perché “non ci riguarda!”? Analizziamo i nostri atteggiamenti verso Dio. Sono di riconoscenza? Mettiamo nei nostri rapporti con gli altri, amore, fiducia, impegno quotidiano di coerenza?
Testimoniamo la maestà del Redentore, realizzandola sin d’ora come regno sulla terra?

Infine il senso della seconda lettura tratta dalla Prima lettera di San Paolo ai Corinzi, riconduce al Regno con le parole: ”Consegnerà il regno a Dio Padre, perché Dio sia tutto in tutti. L’apostolo Paolo contrappone le figure di Adamo e di Gesù, il primo peccatore, il secondo dispensatore di vita per chi aderisce al suo progetto e costituisce con Lui un solo corpo e un solo Spirito.
Ecco cosa ricerca Paolo nelle sue parole, la perfetta unità in Dio. Attraverso questo Re dell’universo, quelli che sono di Cristo potranno lottare da vincenti, questa volta si, contro chi attenta allo splendore del Regno. Perché dalla sottomissione a Dio troveremo un valore indistruttibile! Concludiamo l’anno liturgico presentando al nostro Re i frutti dell’anno che finisce, riconoscendo la sua Presenza, il suo Aiuto e la sua Amicizia.

Lasciamolo regnare nella nostra vita e facciamoci permeare dalla Sua presenza divina.

domenica 16 novembre 2014

Santa Elisabetta d'Ungheria e San Ludovico campioni di Dio!

Santa Elisabetta d’Ungheria (1207-1231), principessa, giovane e santa 

Qual è la cosa più importante della nostra vita?
È tutto l’amore che non avremo dato alla fine; alla natura, agli uomini e a noi stessi.
È il bene che non abbiamo mai voluto fare, presi come siamo dal nostro egoismo, dal nostro operare per l’accumulo dei soldi e del potere su questa misera terra.
Il resto non ha granché di importanza.
Spesso non ci si rende conto di quanto magico sia il momento che viviamo e di che portata quell'attimo sarebbe se lo dedicassimo all'amore verso gli altri.

Ben lo sapeva Santa Elisabetta d’Ungheria, la patrona dell’Ordine Francescano Secolare, sovrana fuori dall'ordinario, che volle dedicare tutti i minuti della sua vita e i privilegi del suo regno alla cura amorevole degli ultimi.
Questa donna ha vissuto il Vangelo di Cristo nel suo stato di vita come principessa, sposa, madre di famiglia e poi giovane vedova.

Era nata in Ungheria nel 1207 dal re Andrea II e da Gertrude, morendo a soli 24 anni, nel 1231 in Germania. Nel 1221 sposò Ludovico, chiamato anche Luigi IV. Il marito di Elisabetta, però, qualche anno dopo partì per le Crociate con Federico II. Il sovrano morì a Otranto per una epidemia, lasciando Elisabetta con tre figli.

La mistica donna continuò una vita di solidarietà e povertà, offrendo tanti danari per la costruzione di un ospedale intitolato a San Francesco, il suo grande ideale di vita e, per questo, divenuta la patrona delle famiglie religiose scaturite dal carisma del Poverello.
Si fece lei stessa mendicante per i poveri, sperimentando su di lei l’indigenza, tanto che fu definita “Pauperum consolatrix”, consolatrice dei poveri e “Famelicorum reparatrix”, soccorritrice degli affamati.

Le figure eccezionali di santi, Ludovico e Elisabetta, questa coppia di reali senza corona di superbia ha reso visibile ciò che tutti dovremmo vedere perfettamente: se è vero che ogni essere umano è creato da Dio a Sua immagine, non è possibile pretendere di amare Dio e, contemporaneamente trascurare i bisogni o, addirittura disprezzare la Sua immagine sulla terra.

Elisabetta ha saputo farsi prossima, avvicinarsi, impegnarsi per essere accanto a ogni creatura sofferente, in modo creativo, concreto, così come è implicito nel verbo fare.

È giusto parlare di utopia quando si hanno esempi fulgidi come quello di questi due sovrani? Non è utopistico niente se abbiamo con noi la forza del Signore.
È lui il fondamento, la possibilità concreta del nostro amore per gli altri. Elisabetta, insieme al consorte, è giunta ai vertici della carità, seguendo l’esempio di San Francesco d’Assisi che, quasi prendendo i due per mano, li ha condotti al Signore attraverso la carità più pura, quella che supera la
logica della reciprocità, amo solo chi mi ricambia.

La figura di Santa Elisabetta, soprattutto per noi francescani secolari, in realtà per tutti, deve aiutarci a capire che l’altro, in quanto persona, è sempre un mistero e che noi dovremmo sforzarci di vedere chi ci sta vicino con “occhi nuovi”, fatti di rispetto, stupore, umiltà e amore.

sabato 15 novembre 2014

XXXIII Domenica del Tempo Ordinario: I talenti!

Proverbi 31,10-13.19-20.30-31; Salmo 127; Tessalonicesi 5,1-6; Matteo 25, 14-30 

Meditando il Vangelo di Matteo, capitolo 25, che racconta la storia del padrone e dei talenti, nella 33 esima domenica del T. O. anno A, viene da pensare a quanto il mondo sarebbe ancora più ingiusto se, alla fine, non si fosse giudicati secondo il principio di questa parabola.

Due sono i temi importanti:

1) I doni che ogni persona riceve da Dio. Nessuno è solamente alunno e nessuno è solamente professore. Impariamo gli uni dagli altri.
2) L’atteggiamento con cui le persone si pongono davanti a Dio, dispensatore di doni.

Tutti dobbiamo confrontarci nella nostra vita con la storia descritta nella parabola. In premessa bisogna tenere conto del valore di questi talenti.
Uno di essi corrisponde, più o meno, a 35 chili d’oro. Da questo capiamo quant'è grande la fiducia di questo padrone nei confronti dei suoi servi.
A tutti costoro il padrone consegna dei talenti, a seconda delle loro capacità.
Quindi tutti sono trattati egualmente. Qualcuno obietterà che il numero dei talenti è diverso per ognuno dei servi e questo può sembrare ingiusto. Al contrario non c’è niente che sia ingiusto.
Chi riceve più talenti ha più lavoro da svolgere e se meditiamo attentamente, chiedendo l’aiuto dello Spirito Santo, capiamo che i talenti che riceviamo non sono un dono personale ma devono essere investiti in opere per realizzare il progetto a cui si deve tendere e per cui siamo stati chiamati.
I primi due servi, ciascuno con le loro capacità, si sono messi in gioco e hanno raddoppiato il ricevuto.
L’ultimo servo, spaventato dalla possibilità di perdere il suo unico talento, lo sotterra ed evita di compromettersi.
Alla piena fiducia che i primi due dimostrano nei confronti del padrone e, soprattutto di se stessi, fa da contraltare il comportamento del terzo che vede nel padrone un despota pronto a punire e di cui non avere assolutamente fiducia.
La risposta del padrone è dura.
Apostrofa il servo infedele come malvagio e infingardo e gli toglie il talento, punendolo profondamente.

Il padrone ricchissimo è Gesù che ha fondato la Chiesa e si eclissa dando a ciascuno la forza, la grazia, i doni per poter operare il bene secondo le diverse possibilità. L’attività di tutti concorre al bene comune.
Chi tiene accantonate le ricchezze per avarizia o per ozio, o per timore di perderle, ne risponde al Signore come se le avesse sperperate.
Perché le ricchezze temporali devono fruttificare.
Un esempio, se lasciamo cento euro in tasca e non le facciamo circolare è semplice pezzo di carta, se circolano rappresentano un valore reale!

Qual è la chiave di lettura per noi? Qual è il messaggio bello e semplice, il buon annuncio per noi per viver meglio?
E poi, come meditare il versetto ermetico: “Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha verrà tolto anche quello che ha”?
E, ancora: Perché il padrone non ha dato il talento sottratto al servo fannullone, a quello che ne aveva ricevuto di meno, dandolo, al contrario a chi ne aveva di più?

I talenti rappresentano le nostre inclinazioni da mettere al servizio degli altri, il nostro saper fare qualcosa da dedicare non solo a noi stessi ma al bene della società. Il servizio ai fratelli, la condivisione con tutti, rivelano la presenza di Dio in noi.
Il nostro crescere deve essere la crescita di tutti.
Chi è preso solo da se stesso si perderà e seppellirà il suo talento, senza metterlo a disposizione del prossimo.
 Il talento sottratto all'infingardo che non lo ha fatto fruttare va a quello che ne ha di più perché lui non è stato inoperoso e da cinque ne ha racimolati dieci.
Aveva un compito impegnativo ma si è dimostrato perfettamente capace di donarsi completamente per il raggiungimento del suo scopo!

A noi cosa vuol dirci questa parabola? Anzitutto ci inchioda alle nostre responsabilità: Chi siamo dei tre servi? Facciamo fruttare i nostri talenti al servizio di noi stessi o per gli altri? Riusciamo a vincere la nostra innata insofferenza verso le responsabilità che quotidianamente si presentano, vincendo l’egoismo e divenendo sempre più capaci di saperci donare con umiltà e semplicità? Aiutiamo la crescita del Regno di Dio, condividendo i suoi doni e collaborando alla conversione dei fratelli? Oppure li utilizziamo per i nostri progetti personali e non per il Signore?

Il tema centrale rimane sempre quello dell’accoglienza operosa del Regno. Si dovrebbe accostare questa parabola a quella delle “Dieci Vergini” (Mt 25, 1-13) e ancora a quella del “Giudizio Finale” (Mt 25, 31-46), storie dedicate alla venuta del Regno. Tutto arriva nel momento meno atteso.

È anche il senso dell’esortazione paolina contenuta nella seconda lettura tratta dalla Lettera ai Tessalonicesi: “Non dormiamo, vigiliamo e siamo sobri”.
Vigilare non significa essere in oziosa e snervante attesa ma significa lavorare per la gloria di Dio e il bene delle anime. Perché la venuta del giorno del Signore, la sua irruzione nella storia, determinerà la differenza tra i figli della Luce, quelli che si impegnano a far fruttare i loro talenti, lavorando, conducendo una vita decorosa aperta agli altri, e i Figli delle tenebre, coloro vinti dall'egoismo di un’esistenza lontana dall'essere comunitaria e attiva.

Per loro Dio sarà giudice severo, mentre per i figli luminosi sarà il Padre buono che salva attraverso il Figlio Gesù Cristo. La Prima Lettura, tratta da Proverbi, è dedicata alla donna sapiente.

Quale può essere la sapienza riferita alle mogli e alle mamme di oggi?
Si celebra lo spessore del lavoro sia domestico che esterno, l’impegno sociale nei confronti dei miseri, ma è soprattutto la ricchezza interiore la “perla” in cui “confida il cuore del marito” che viene inondato da felicità per tutti i giorni della sua vita. Il senso religioso della vita in una donna “timorata di Dio”, riempie di senso l’esistenza sia del coniuge che dei figli, che di coloro che incontrano una donna così.
Tutti intonano un canto di lode in ringraziamento per il dono di una sposa e di una madre così completa. D'altronde è noto che Dio regala gioia a chi produce amore nella semplicità delle cose di ogni giorno che contengono tutto il mistero del vivere: soffrire, essere felici, illudersi, smarrirsi e continuare, nonostante tutto, a camminare verso il Regno.

Il salmo 127 ricorda che il dono della moglie come vite feconda e dei figli come virgulti d’ulivo è per chi è beato agli occhi del Signore è Lui che dispensa ai suoi fedeli ogni bene.

martedì 11 novembre 2014

San Martino: quando la festa era grande!

La leggenda è nota:

San Martino, coperto da un ricco mantello in una freddissima giornata di novembre, è a cavallo. Sul suo percorso incontra un mendicante seminudo, infreddolito.
Senza indugio taglia in due il suo mantello per donarne una parte al povero.
Il miracolo che scaturì da quest’atto di carità è noto come estate di San Martino, ultimi giorni di tepore prima del grande freddo.

E’ noto che il Santo deve la sua popolarità alla consuetudine di associarlo al vino.
In questo periodo il nuovo nettare è travasato per la prima volta dalle botti e con l'occasione è gustato insieme agli amici.

Una leggenda narra che San Martino fu nascosto all'interno di una botte vuota per fuggire dai nemici: questi ultimi per scovarlo bevvero una gran quantità di vino da altre botti finché non si ubriacarono e il santo poté fuggire, ringraziando i contadini che lo avevano aiutato facendo trovare loro tutte le botti piene di vino.

Nei paesi dell’interno abruzzese era usanza confezionare, nella settimana dei festeggiamenti dedicati al Santo caritatevole, gustosissimi biscotti da inzuppare nel vino novello, per donarli alle persone bisognose affinché si rinnovasse il valore umano e caritatevole del gesto di Martino.
Altri tempi si dirà!
Certo i bagordi continuano con innumerevoli proposte mangerecce.
Com'è diverso il clima della festa di oggi da quello di un tempo!
Basta rifarsi alla nostra fanciullezza, ai racconti dei nonni, a un tempo in cui tutto sembrava semplice ed era vissuto col cuore.
Non mancava certo l'elemento indispensabile per onorare il Santo: il vino, sincero, nero, che tingeva il bicchiere ed era il frutto della vigna coltivata in un anno di ansie e attese, vissute sia da chi possedeva un pezzo di terra, sia da chi lavorava a giornata.
Si arrivava al dì festivo con lo spirito sereno, con la predisposizione alla bontà nei confronti di tutti. Quel giorno il vino era per chiunque, le salsicce e le castagne pure.
I più facoltosi ospitavano nella festa chi non poteva permettersi certi lussi.
San Martino così come il Natale e la Pasqua erano motivo di acquisto di un vestito o scarpe nuove, ma nessuno lesinava maglie di lana grezza, fatte in casa ai ferri, per i poveri che non avevano di che vestire. Certo, alcune usanze erano un po’, come dire stravaganti!

Come potremmo definire altrimenti la convinzione che San Martino protegga i mariti infelici?
E come spiegare il perché nei paesi i ragazzi corressero per le strade lanciando epiteti poco piacevoli a quanti fossero stati vittime di sventure coniugali?
Ai poveri “cornuti” si organizzavano scherzi e scherni feroci.
Ma fra espressioni burlesche e talvolta oscene, tra nomi di mogli infedeli e mariti traditi, il bicchiere di vino rinsaldava comunque l’amicizia.

E cosa dire dei mercati di San Martino che si svolgevano in molte parti d’Abruzzo?
Oggi la quantità e varietà delle merci è grande.
Ma allora era un vero evento che richiamava venditori e acquirenti paesani e forestieri.
Si vendevano robe povere, scale, attrezzi da lavoro per il contadino e l'artigiano, stoffe, scarpe per la campagna.
La gente allora, come oggi, si accalcava ed era tanta, ma le "sporte" non erano tutte piene e contenevano appena ciò di cui non si poteva fare a meno.
E quanti sacrifici costavano quelle povere cose!
La vita oggi è certo più agiata ma avida, priva di slanci umanitari, psicotica. Sarà per questo che il sole spesso non torna più a brillare nella breve "estate di San Martino" per il generoso dono del mantello.

venerdì 7 novembre 2014

Dedicazione Basilica Lateranense: 32 esima T.O.

Ezechiele 47,1-2.8-9.12; Salmo 45; Corinzi 3,9 c 11.16-17; Giovanni 2,13-22 

La Dedicazione della Basilica Lateranense ci invita in questa domenica, a riflettere sugli edifici in pietra, costruiti dall'uomo per onorare il Salvatore.
Sono segni esteriori e sensibili della vittoria della fede cristiana sul paganesimo occidentale. Sono anche testimonianza viva dei tanti martiri dei primi secoli di cristianesimo.

La grande chiesa del Laterano, sede del vescovo di Roma, ricorda la conversione di Costantino, imperatore che nel 312 divenne cristiano e fece costruire questa grande basilica per ringraziare Dio del dono della fede.
Fu la prima chiesa consacrata pubblicamente e in seguito dedicata alle grandi figura del profeta San Giovanni Battista e dell’altro Giovanni l’Evangelista.
Si tennero al suo interno numerosi concili e oggi è il centro simbolico della comunione di tutte le chiese sparse nel mondo.

Pietre importanti quindi ma, come dice il profeta Ezechiele nella prima lettura, dovremmo meditare su un Dio che non è possibile imprigionare tra quattro mura seppur sacre!
Egli, infatti, è infinito e neppure la vastità dei cieli può contenerlo!
La città di Dio è incontenibile, come dice il salmo, rallegrata da corsi d’acqua pura e se noi saremo degni il nostro Signore non ci farà vacillare, ci soccorrerà a ogni difficoltà.
Rigenerato dalle acque del Battesimo, il popolo di Dio è in cammino verso la pienezza di una vita senza fine.
 Eppure, si medita tra le righe di questo brano profetico, che quando un popolo fedele si riunisce nel nome del Signore in una chiesa, anche la più piccola minuscola cappella, l’Onnipotente lascia di buon grado il suo luogo immenso, puro e sublime, calandosi nella realtà dell’umano, per incontrare e amare i suoi figli.

L’incontro con Dio ci fa diventare, così come si legge nella seconda lettura, di San Paolo ai Corinzi, noi stessi edifici di culto, tempio santo che contiene lo Spirito del Creatore.
Nessuno di noi, allora, può essere toccato perché nessuno può profanare la casa di Dio con atti vergognosi, neanche noi stessi con comportamenti deplorevoli. San Paolo, in altri scritti ricorda il nostro dovere di essere figli irreprensibili agli occhi di Dio.
Ma è tutto il Nuovo Testamento che ci invita, a più riprese, a compiere un passo ulteriore.
È all'interno della nostra vita e della nostra comunione con Cristo che troviamo lo spazio sacro più alto e santo per innalzare a Dio il nostro culto.
Paolo, tra le righe, dice che siamo noi stessi architetti e costruttori del tempio. Edifichiamo su di una pietra angolare che regge l’universo, il Cristo!
Noi siamo suoi manovali, a volte inesperti e goffi, che debbono comunque darsi da fare per difendere questo tempio in perenne costruzione, dai sabotatori, i maligni che vogliono abbatterlo e impedire l’edificazione di un giusto luogo di Dio.
Importante è che tutto il popolo di Dio sia unito e che non ci siano divisioni perché tutti insieme
formiamo questo tempio di Dio.

Il Vangelo di Giovanni è di fondamentale importanza.
Lo capiamo se ricordiamo che questo episodio, insieme a quelli della Morte e Risurrezione del Signore e la Moltiplicazione dei Pani, tutti e quattro gli Evangelisti lo ricomprendono nei loro scritti. Gesù ha iniziato la sua missione pubblica a Cana col primo miracolo, si ferma a Cafarnao e poi si dirige a Gerusalemme per la Pasqua.

Nella città santa avviene un episodio quasi sconcertante. Gesù, che abbiamo imparato a vedere mite uomo d’amore, appare così sdegnato da perdere quasi le staffe.
Al tono fermo della voce fa seguire subito dopo dei gesti forti: una frusta che schiocca, tavoli che vengono rovesciati, mercanti scacciati in malo modo dal tempio, insieme alle loro mercanzie, gettate fuori le mura sacre.
Gesù non sopporta che il tempio, segno della presenza stabile del Padre in mezzo al suo popolo, luogo sacro per eccellenza, venga profanato, trasformato in vile mercato, nella insana logica del profitto che infesta tutto il nostro misero mondo ancora oggi.
Il mercato ha il suo segno nel denaro, nel sopruso del ricco che può permettersi di spendere verso il povero. Certo, quel gesto furibondo acuisce lo scontro.
Il mercato assicurava a Caifa, sommo sacerdote ottimi introiti.
Il gesto di Gesù prelude al seguito del capitolo quando a Lui, che si professa Figlio di Dio, viene chiesto un segno che il Messia non vorrà dare.
I mercanti di allora sono oggi quelli che aprono le loro insegne domenicali, in centri commerciali in cui si riversano migliaia di famiglie che, anziché onorare il giorno dedicato al Signore, si votano al dio denaro, a un nuovo “vitello d’oro”. (Perché la reazione furibonda di Gesù è simile a quella di Mosè, quando scendendo dal Sinai con le Tavole del Decalogo, vede il popolo adorare dei inesistenti e respingere l’unico vero Signore del mondo!).
 “Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato”.
E l’evangelista Marco rafforzerà il concetto nel capitolo 11, 17
“La mia casa sarà chiamata casa di preghiera”.
Luca dirà invece: “… e voi ne avete fatto una spelonca di ladri”. (19, 45)

Comprendiamo il senso della parola “Casa del Padre”?
Se davvero capissimo avremmo in noi il desiderio bruciante di stare in chiesa e adorare il Signore nel suo tempio santo! Inoltre chiediamoci a quale livello dobbiamo collocarci per capire Gesù.

Il nostro cammino ha bisogno di catechesi se vogliamo penetrare il mistero del Cristo.
 Nella lettura del brano evangelico segue poi la grande, ennesima disputa del Salvatore con i Giudei circa la frase simbolo che annuncia il prodigio:
 “Distruggete questo tempio e in tre giorni io lo farò risorgere”.
Giovanni sente il bisogno di specificare che Egli parlava del tempio del suo corpo.
Non era possibile la comprensione per gli uditori che avevano nella mente e negli occhi i 46 anni occorsi per l’edificazione del grande tempio di Gerusalemme.
Le parole erano incomprensibili agli stessi Apostoli. Anch'essi brancolavano nel buio, senza rendersi conto che quello di Gesù, nel Vangelo giovanneo, era il primo annunzio della sua morte e resurrezione.
Nessuno capiva che il tempio di Gerusalemme o qualsiasi altro spazio sacro, può essere solo un segno, un simbolo che ci aiuta all'incontro con Dio, lo facilita ma non lo sostituisce.

Gesù lo incontriamo a prescindere dalle mura della chiesa, nei sacramenti, nei fratelli, particolarmente in quelli bisognosi.
Tutto questo è chiaro in noi? Noi capiamo il comportamento e le parole di Gesù? C’è in noi la passione insana del denaro? La ricchezza è il fine della nostra esistenza? O abbiamo qualche altro idolo nascosto? Sappiamo rinunciare al superfluo o a qualcosa che reputiamo importante per far posto unicamente a Gesù?

Il Vangelo di Giovanni si conclude con il verbo che più di ogni altro l’evangelista usa nei suoi scritti: videro e credettero!
A noi, cosa vuol dirci il Vangelo? Dal tempio in cui noi offriamo sacrifici spirituali, portiamo fuori coerenza di gesti, di scelte di vita?
Non è possibile pregare in chiesa e poi comportarci scorrettamente nei confronti dei fratelli. Inutili sono le elemosine, la carità spicciola, il falso perbenismo che operiamo credendo di avere coscienza a posto. Sono gesti che non ci salvano in caso di comportamenti squallidi.
 La nostra coerenza di vita è minacciata dalla fragilità e dobbiamo chiedere con fede di essere illuminati dallo spirito per discernere il bene dal male.

mercoledì 5 novembre 2014

Ridi sempre se vuoi essere cristiano

Ridi sempre, ridi, fatti credere pazzo, ma mai triste. Ridi anche se ti sta crollando il mondo addosso. Continua a sorridere, ci sono persone che vivono per il tuo sorriso e altre che rosicheranno quando capiranno di non essere riuscite a spegnerlo! (Roberto Benigni)

Vi è mai capitato di guardare con attenzione un interlocutore intento a una grassa risata?
Si spalanca una finestra sul viso che mostra una squadra poco precisa di perle gialle disposte tra le labbra.
Magari manca all'appello più di un dente e la bocca ha un appeal ridotto ai minimi termini, però quella risata comunica comunque gioia!
E, poi, avviene una sorta di miracolo, un contagio emozionale che trasferisce la risata o il sorriso dentro di noi. Inizia allora un allentamento di eventuali tensioni, un gran sollievo, un benefico rilassamento, riaffiora quasi il nostro “io bambino”, soffocato dallo stress di ogni giorno.

Qualcuno opportunamente scrisse che:
 “una risata equivale a una emozione grandissima, potentissima che contiene tutti gli ingredienti per essere padroni di noi stessi, capaci di cambiare il mondo. È come un codice segreto a cui si accede facilmente per vincere stress e ansie”.

Proprio così!
Un bel “cheese” è formato da sei coppie di muscoli che si contraggono tra fronte e mente in una benefica ginnastica facciale.
Mi torna in mente Jessica Rabbit, ricordate la focosa donnina in cartone animato, innamorata del coniglio Roger solo perché riusciva a farla ridere sempre?
La gioia, inutile dirlo, è anche afrodisiaca e con la famosa “patch therapy” si guarisce davvero, basti
pensare alla clown terapia che ha inondato gli ospedali di mezzo mondo.

Ricordo perfettamente il mio caro nonno Salvatore che sosteneva di aver curato la sua innata stitichezza con le risate.
Si era comprato un libro di barzellette e, sul freddo water, leggeva qualche pagina mentre si sforzava nell'atto più naturale dell’uomo.
La famiglia, allora era di tipo patriarcale.
Nonno era una sorta di “capoccio”, icona sacra di capo famiglia.
C’erano poi i figli e le donne occupate con lavori da uncinetto perché un tempo appariva sconveniente stare con le mani in mano.
Di sera, davanti al focolare non mancava mai una storia allegra da raccontare per poterci fare su una bella risata, perché il buonumore, dicevano gli anziani, fa buono anche il sangue.

La forza di un sorriso, di una bella risata aiutano a gestire in maniera efficace ogni tipo di problema, rendendo, in generale, la vita più facile e divertente. Ridere quindi è una medicina naturale che ci fa stare meglio.

Sarà per questo che Gesù nei Vangeli ripete sempre di essere gioiosi?
"Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena" (Gv 16,24).

E S.Agostino diceva: "Non è certo che tutti vogliano essere felici; poiché chi non vuole avere gioia di Te, che sei la sola felicità, non vuole la felicità".

Anche Papa Francesco, in una recente omelia ha parlato della gioia di Gesù:
“Noi pensiamo sempre a Gesù quando predicava, quando guariva, quando camminava, andava per le strade, anche durante l’Ultima Cena… Ma non siamo tanto abituati a pensare a Gesù sorridente, gioioso. Gesù era pieno di gioia: pieno di gioia. In quella intimità con suo Padre: ‘Esultò di gioia nello Spirito Santo e lodò il Padre’. E’ proprio il mistero interno di Gesù, quel rapporto con il Padre nello Spirito. E’ la sua gioia interna, la sua gioia interiore che Lui dà a noi”.

Uno gnostico del II secolo pronunciò una frase che sembra un paradosso ma ha un fondo di verità: “La preghiera dell’uomo triste non ha mai la forza di salire fino a Dio. Poiché si prega solo nello sconforto, se ne dedurrà che nessuna preghiera è mai giunta a destinazione”.

Andando a letto stasera focalizziamoci sui bei momenti trascorsi durante la giornata. Non occorre ricercare grandi vissuti, basta evocare piccole gioie quotidiane e chiuderemo gli occhi sorridendo.

lunedì 3 novembre 2014

Briciole di Vangelo

Dal Vangelo secondo Giovanni: 
In quel tempo, Gesù disse alla folla: "Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me; colui che viene a me, non lo respingerò, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell'ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell'ultimo giorno". (6,37-40)


Questo Vangelo di poche righe fa parte di un ampio discorso in cui Gesù annunzia con solennità di essere Lui stesso il Pane della Vita, la sorgente della vita, l’Inviato del Padre.
Lo annunzia a un popolo che, come di consueto, non ci capisce granché.
Queste righe sono una grande consolazione, soprattutto in questi giorni in cui ripensiamo con nostalgia ai nostri cari defunti.
Nello stesso tempo il Vangelo è anche una denuncia contro la nostra indifferenza e ingratitudine.

Il Padre, mandando in mezzo a noi il Figlio, gli ha donato tutte le anime perché è suo desiderio che non si perda nulla di tutto quello che ha donato e che tutti siamo risuscitati nell'ultimo giorno.
Gesù è quel Pane di Vita Eterna, di cui tutti speriamo, venuto per obbedire al Padre.
Il Vangelo ci aiuta a capire quanto sia importante avere fede e credere alla reale presenza del Signore nel Pane Eucaristico.

A me questo brano fa meditare e riflettere sulla nostra ingratitudine.
Il pensiero di avere Gesù con noi a prometterci vita eterna, dovrebbe farci saltare di gioia e indurci a perenne adorazione. Invece, nel nostro povero spirito spesso c’è la notte più buia.
Noi cerchiamo Gesù per cercare un pane materiale, per ottenere grazie temporali.
Noi pensiamo poco alla vita eterna e molto alla contingenza della esistenza attuale.
Poco pensiamo a una vita soprannaturale con Lui.
I pensieri della terra ce la nascondono agli occhi assonnati.
Le nostre anime, difficilmente sono orientate all'eternità.
Dobbiamo camminare e molto nella nostra conversione per credere in maniera giusta al Signore, a Gesù Sacramentale, a Colui che si dice pronto a risuscitarci alla fine dei tempi.
Questo mondo è morto alla grazia perché è lontano da Gesù Eucarestia, pur frequentando il sacramento.
Siamo così stolti da attaccarci a quello che passa e non è nostro e restare lontani dalla vera ricchezza. Ci vuole decisamente molta preghiera perché lo Spirito ci apra gli occhi e non ci permetta di essere ingrati e rimanere fedele al suo amore.

C’è pure una sfumatura ecclesiale che mi viene in mente: L’idea del dono fatto dal Padre a tutti noi. La comunità che sta con Gesù sa che gli uni sono per gli altri un “dono” di Dio.
Dobbiamo essere uno in tanti, uniti perché il Padre vuole che nessuno si perda e il Figlio ci risusciterà nell'ultimo giorno.