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venerdì 31 ottobre 2014

Festività di Tutti i Santi

Apocalisse di S. Giovanni A. 7,2-4.9-14; salmo 23; 1 S.Giovanni 3,1-3; Matteo 5,1-12 a

La vita terrena dicono sia come una corsa a cronometro: chi parte prima, chi dopo, chi arriva prima, chi arriva dopo. Ma tutti giungiamo allo stesso traguardo. L’importante è come ci si arriva.

Questi due giorni, Festa di Tutti i Santi e Commemorazione dei nostri defunti, ci offrono profonde meditazioni sulla nostra esistenza.
Per noi ogni giornata è un tesoro di cui si deve render conto a Dio.
La morte, diceva un Padre della Chiesa, è il più potente, il più indiscutibile dei predicatori. Cerchiamo sempre una guida, in questa nostra esistenza, per affrontare il cammino verso l’alto, per lasciare la pianura e salire in montagna dove respirare aria buona, aria di vita eterna.
Cerchiamo sempre, riuscendoci poche volte, a lasciarci dietro la fatica del quotidiano, per ascendere con nuove forze e intuire la dimensione della beatitudine.

Le nostre guide sono i Santi, immagine viva dell’amore di Dio.
La loro grandezza è nascosta nel loro spirito.
Dio irrompe nella loro anima, con la pienezza della sua grazia e vi stampa un’orma più vasta mostrando la Sua presenza e il Suo volto.
I Santi, dovunque passano, lasciano qualcosa di Dio.
Essi solo lasciano tracce, gli altri fanno rumore ma non lasciano segni del loro passaggio.
Il loro esempio è un aiuto alla nostra debolezza, un sostegno alla nostra fede vacillante, un incitamento alla virtù.

Nel giorno della santificazione universale, Gesù proclama le Beatitudini, all'interno del grandioso “Discorso della Montagna”, considerato il “Manifesto del Regno”, il compendio della vita cristiana. Le Beatitudini sono la “Magna Charta” dei fedeli di Dio, il proclama che in otto punti stabilisce le condizioni per accedere al Regno. Gesù le conferma con il suo esempio e, nei capitoli 8 e 9 del Vangelo di Matteo, farà seguire ben dieci miracoli a conferma dell’autorità unica di Maestro,
Messia e Salvatore.
Certo che le Beatitudini rappresentano una rivoluzione nella vita religiosa, familiare, sociale di noi, popolo di Dio.
Sul monte detto proprio delle Beatitudini, il Maestro indica il completamento dei Comandamenti indicati da Dio sul Sinai. Gesù è il nuovo Mosè e porta un’unica grande legge:”Ama”.
Solo l’amore rende felici.
Sono beati, cioè felici, coloro che sono poveri. Incredibile pensarlo, è fuori da ogni logica umana. I poveri ci riescono perché non sono attaccati ai beni materiali, si affidano solo a Dio.
Beati sono coloro che non fanno di se stessi il proprio idolo, che non si pongono nei confronti della vita con arroganza, i Beati sono i poveri di spirito.
Così i sofferenti, i perseguitati, i miti, gli affamati di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, tutti coloro che tra sé e Dio non mettono altri idoli come denaro, sesso, successo, materialismo.

Occorre che anche noi ci facciamo “poveri nello spirito”, impoverendoci del nostro io.
Il povero di spirito è colui che si fa libero per il Vangelo, che sa condividere con i poveri, che attende tutto da Dio, che da spazio nella sua vita a Dio, che non desidera nulla se non Dio, nella semplicità di un fanciullo che si mantiene tranquillo nelle prove.
Il Regno è assegnato a coloro che hanno l’umiltà interiore.
Necessario è uccidere in noi la superbia e fuggire gli onori del mondo.

In Matteo, le Beatitudini sono otto, per Luca sono, invece, quattro, con l’aggiunta di quattro maledizioni.
Per Luca, Gesù parla in seconda persona, per Matteo in terza persona, in forma cioè universale. I santi, dei quali oggi celebriamo la comunione, vivono appunto la beatitudine del Paradiso. Tante volte ci siamo chiesti come sia possibile incamminarci sulla strada della carità, quella descritta mirabilmente da San Paolo:
 “La carità non avrà mai fine … Adesso conosco in modo imperfetto ma allora conoscerò perfettamente come anch'io sono conosciuto” (1 Cor 13, 8-12).

Ecco quindi che il Vangelo di oggi ci indica la strada delle Beatitudini. Ricercandole ci incamminiamo sulla strada del Regno:
 “Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno per causa mia … Beati gli operatori di pace … Beati i puri di cuore … Beati i perseguitati per la giustizia … “.
E, l’amore che rende beati è celebrato nella seconda lettura, tratta dalla prima lettera di San Giovanni Apostolo, capitolo 3.
 Il mondo capisce ciò che vede, ciò che tocca. Come fa l’occhio naturale, l’occhio inquinato dell’uomo a scorgere Gesù?
Come fa l’uomo a capire a fondo ciò che è divino? È come quando pretendiamo di fissare lo sguardo sul sole!
Il mondo non ha conosciuto Dio e quindi non ha conosciuto la nostra dignità di figli.
Quella parte di mondo che non riconosce Cristo, il Figlio eterno, non può riconoscere neanche noi. Qui “conoscere” sta per “non ci ama”, non ci sopporta. Perché i veri figli di Dio incutono timore al mondo. I veri figli di Dio giudicano il mondo e lo mettono in crisi! Le tenebre non sopportano la luce. È finita per le tenebre se accolgono la luce! E allora, ecco il versetto che dice: “Ciò che saremo … saremo simili a lui …”.
Oggi siamo imprigionati nel mondo in un contesto di umiltà e mistero, tanto che il mondo fatica a capirci.
Ma noi sappiamo lo splendore della dignità futura, possiamo immaginare, anche se lontanamente, le tenerezze di Dio per i suoi figli quando cadranno i limiti umani e corporali e parteciperemo alla sua grande gloria, quando “lo vedremo così come egli è, senza confini nella intimità con lui e saremo sempre insieme a lui.
Per questo i santi vedono l’ora della morte come quella della gioia!

Ma, attualizzando la Parola a tutti noi possiamo e dobbiamo chiederci:
Com'è il nostro rapporto con Dio? Abbiamo confidenza, gioia in lui, intimità, calore? Ci abbandoniamo a lui? Siamo figli che saltano al collo del papà per riempirlo di baci e non hanno paura nemmeno se hanno combinato guai perché sanno della misericordia di un papà?
Abbiamo nel Padre una fiducia incondizionata? O, al contrario, c’è un rapporto di timore, di venerazione fredda, di burocrazia, lontananza, addirittura sospetto?

La prima lettura, tratta dall'Apocalisse parla con l’allegoria tipica di questo libro di 144 mila buoni che, mediante il sigillo, sono preservati non dalle sofferenze ma dalla dannazione eterna.
Questo numero di anime rappresentano l’immensa moltitudine degli uomini di ogni parte della terra che, con la Fede e in forza del Battesimo, aderiscono al Cristo e trionfano con Lui in cielo.
La vittoria è raffigurata dalla veste bianca e con la palma del martirio, a significare le tribolazioni, le prove e le tentazioni.
Le anime gridano che la loro vittoria è dovuta a una speciale grazia del Padre e al sangue dell’Agnello immolato, che è Gesù.


Per metterci sulla scia dei Santi concludiamo con le parole tratte dall'Imitazione di Cristo: “Beata l’anima che ascolta il Signore che le parla dentro e accoglie dalla sua bocca la parola di consolazione. Beate le orecchie che colgono la preziosa e discreta voce di Dio e non tengono in alcun conto i discorsi di questo mondo”.

giovedì 30 ottobre 2014

Don Oreste Benzi, elogio alla gioia!

'Le cose belle prima si fanno e poi si pensano'. (Don Benzi)

Don Oreste Benzi, romagnolo doc scomparso nel 2007, era conosciuto soprattutto per essere stato il prete delle prostitute a Rimini.
Come sacerdote si è sempre distinto per l'attenzione prestata ai più emarginati, a quelli che chiamava "gli ultimi" definendoli "coloro ai quali nessuno pensa. E se ci pensa, pensa male.".

Questo vulcanico don diceva che la morte non esiste e, mentre regalava collanine del rosario, spiegava che morire era giungere alla fine del nostro pellegrinaggio aprendosi, nel momento della chiusura degli occhi in terra, all'infinito di Dio.

Che gran personaggio era l’Oreste dalla tonaca malandata e che gran fortuna ebbi a conoscerlo. Quando lo incontrai la prima volta, la sensazione fu di essere stato suo amico da sempre. Sparse con l’accento inconfondibile, il sapore della sua terra.
Eravamo in una delle case dell’associazione Giovanni XXIII dove lui aveva inventato uno stile tutto suo di condivisione del Vangelo.
Ospitava ragazzi e ragazze in preda alla follia degli stupefacenti e donne buttate sulla strada a fare
meretricio con uomini.
Il grande popolo di questa associazione di aiuto sociale, ospitava nelle sue numerose case famiglia, anche anziani e handicappati.
Aveva case di accoglienza anche in Brasile, dove altri seguaci del rivoluzionario don cercavano di offrire vitto e alloggio al mondo disperato delle favelas.

Nonno Oreste, come amavano chiamarlo i suoi “ragazzi”, aiutava da anni un’adolescente teramana, a me carissima a uscire fuori dal tunnel delle dipendenze.
Ne aveva fatta di strada da quando era nata a Coriano la prima casa di ospitalità.
Oggi in suo nome, grazie all'intervento dello Spirito Santo, esistono luoghi di aiuto fraterno in oltre 30 paesi nel mondo.

Parlai a lungo con lui, anzi per meglio dire parlò lui spaziando dalla vita di tutti i giorni al Vangelo, perché le due cose, diceva, sono legate strettamente.

Un fiume in piena anche se si scherniva dicendo di aver sonno perché la sera prima era stato in discoteca. Avete letto bene! In discoteca a Rimini.
Era entrato in uno di questi ritrovi notturni pieni di giovani e, al D.J. sbalordito, aveva chiesto di far fare un applauso per Gesù al popolo della notte.
Infine era corso, seguito a stento dai più stretti collaboratori, alla stazione per dare conforto ai poveracci senza tetto che si rifugiavano lì dal freddo. Ridendo mi disse che era stata una notte come tante. Poi mi lasciò.
Lo aspettava un rosario davanti all'ospedale, credo fosse di Riccione, contro gli aborti e in favore delle giovani madri.
 “Ricordati - mi urlò mentre correva via - il viaggio non farlo mai da solo, fatti accompagnare da Cristo”!

Questa ilarità, questa gioia continua che sfociava nel ridere di Don Benzi, mi attraeva un casino.
Era una gioia parlargli e lo feci diverse volte.

Mi era accaduto di leggere un’affermazione, non ricordo bene se di Giovanni Crisostomo che mi aveva colpito.
La frase ricordava che Gesù non aveva mai riso, almeno non era riportato in nessun Vangelo di un suo momento di ilarità. Rimasi basito. Ma come, mi dicevo, e che fine fa la gioia di cui parlano sempre le Scritture nel Nuovo Testamento?
Ho letto e riletto i Sinottici e ho scoperto che effettivamente il Signore non pare si sia presentato mai con un bel sorriso a trentadue denti.
Al contrario lo si scopre piangere amaramente più volte, basti ricordare le lacrime nell'orto del Getsemani e il pianto dirotto davanti a Lazzaro, l’amico, inanimato.

Però, frequentando meglio la Parola, ruminandola con pazienza ho potuto immaginarmi Gesù grande umorista.
Come definirlo diversamente, leggendo delle sue battute sagaci del tipo:
 “E’ più facile che un cammello passi per la cruna dell’ago che un ricco entri nel Regno di Dio! (cfr Mt. 19, 24).
 O ancora, meditando quella frase d’incredibile forza evocativa:
 “Guide cieche che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!”. (Mt 23,24).
Dato poi che il futuro Redentore veniva giudicato da molti uomini del suo tempo “mangione e beone” (cfr Lc 7,34), ecco che l’idea fattami di Lui è che doveva essere un gran bel tipo.
Se fossi vissuto ai suoi tempi l’avrei eletto amico del cuore.
Soprattutto perché in diverse pagine del Vangelo Gesù raccomanda la gioia del cuore Adoro chi sa sorridere della vita con tutta l’arguzia di cui si può essere dotati.

Nel “Nome della Rosa”, capolavoro di Umberto Eco ambientato nel buio del medioevo, si racconta che fu messo al bando l’ “Elogio del riso” di Aristotele dall'Inquisitore.
Il frate crudele che uccise i suoi simili che scoprivano il libro e volevano leggerlo nonostante fosse messo all'indice, non aveva mai provato cosa significasse allargare la bocca per regalarsi una bella risata.
Ci sono insegnamenti che riesci ad apprendere da solo, con quel pizzico d’intelligenza data dal Signore, altri che hai bisogno di suggerimenti da parte di un grande maestro.
Le parole del Signore e la fede in Lui sono la mia forza, la mia energia.

Spero sia così anche per voi.

Signore tu sai tutto!

venerdì 24 ottobre 2014

XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO A: L'AMORE!

Esodo 22, 21-27; 1 Tessalonicesi 1, 5-10; Salmo 17/18; Matteo 22,34-40 

Il tema di questa domenica trentesima del Tempo Ordinario, anno A, è sicuramente fondamentale per capire cosa Dio chiede a ognuno di noi. È una Parola difficile, ci chiede di amare incondizionatamente tutti, anche i nemici, anche quelli che troviamo antipatici, sgradevoli e cattivi.

L’amore per il Signore e per i nostri fratelli è l’architrave da cui dipende, come ribadisce il Vangelo di Matteo, capitolo 22, 40, tutta la Legge e i Profeti.

Immaginiamo un filo d’oro all'interno delle Scritture per scoprire che due sono i piani su cui muoversi:
Uno teologico e verticale che è l’amore per Dio, perché Dio ci ama e noi amiamo Dio che ci ama; l’altro pratico e orizzontale che abbraccia il mondo di ognuno di noi, incitandoci ad amare gli altri, “ama il tuo prossimo come te stesso” (22,19).

È la legge fondamentale per chi si pregia di amare il Creatore e, di riflesso, le sue creature.
È Paolo che, in maniera definitiva, esprime questo comando d’amore in maniera sublime nella lettera ai Romani 13, 8:
“Chi ama il suo simile ha adempiuto alla Legge”.

Se dovessimo fare cronistoria dell’amore verso gli altri, dovremmo quasi escludere l’Antico Testamento.
Questi riservava l’amore unicamente a Dio.
 In Deuteronomio (6, 4-5) si legge che Dio è unico Signore:
 “Amerai il tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le tue forze”.
 Nei confronti dei fratelli unico dovere era il rispetto, il buon comportamento.
 La tradizione giudaica contemplava ben seicento e tredici precetti sulla cui gerarchia di valori, i dottori della legge discutevano a più non posso. Gesù, arrivando sulla terra, stravolge tutto, semplifica in un comandamento che si spacca in due, portando alle stelle il concetto di amore incondizionato verso i fratelli tutti, se davvero si ama Dio.
 A ben vedere il valore dell’uomo agli occhi del Creatore, già lo proclamava il primo libro biblico, Genesi dove si legge che è:
 “Creatura principe, creata da Dio a sua immagine”(1,27).
 Non è possibile, dicono ora le scritture del Nuovo Testamento, amare Dio senza amare ugualmente la sua immagine che è l’uomo!
 Il Signore è così capace di amore ardente e incondizionato che noi possiamo ricambiare solo impegnandoci all'amore verso le creature tutte senza distinzione alcuna e anzi, amando i propri nemici. Parola difficile, a volte è una montagna invalicabile che ci sovrasta e ci intimorisce. Dio ci chiede il massimo della carità verso gli altri.


Ci riempiamo la bocca di cristianesimo o francescanesimo ma prima dobbiamo verificare se Cristo vive profondamente in noi, se i nostri pensieri sono modellati sulla Sua legge, se i nostri atti rispecchiano i comandamenti, se la nostra vita intima è segnata dalla Sua presenza!
 Spesso ci auto convinciamo di essere sulla strada buona e nascondiamo a noi stessi alcune cose che non accettiamo del Cristo, rigettando le cose difficili.
 Noi cristiani selezioniamo i comandamenti, setacciamo il decalogo, accettandolo solo in parte.

 E allora elenchiamole le difficoltà, le pareti verticali che dobbiamo scalare per essere salvi: Il perdono delle offese; l’amore per il nemico; la purezza delle nostre intenzioni e del nostro cuore verso gli altri; l’obbedienza alla Chiesa e infine … Amare come Lui ama noi!
 “Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri” (Gv 15,12).
 “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”. (Gv 13,35)

 Credo che tutti riusciamo a trovarci spiazzati dalle parole di Nietsche, il famoso filosofo ateo tedesco che rimproverava i cristiani così: ”Se la buona novella della Bibbia fosse anche scritta sul vostro volto, voi non avreste bisogno di insistere perché si ceda all'autorità della Bibbia. Voi dovreste essere la Bibbia viva!”.
 Con la bocca tutti noi proclamiamo con forza il versetto del Salmo di oggi:
 “Ti amo Signore, mia forza, mia rupe, mio rifugio, mia salvezza, mio baluardo …”.
 E con il cuore? Il precetto principe, quello dell’amore, è contemplato nella nostra vita?
 San Paolo nella famosa lettera ai Corinzi sulla carità, San Giovanni nella sua stupenda lettera dedicata all'Amore e i Vangeli tutti, in ogni piega di questi meravigliosi scritti, segnalano, tra le righe, il freddo, l’indifferenza, l’oscurità che regna in molti cristiani.
 È il segno inequivocabile della lontananza dalla sorgente di luce eterna che è l’amore di Dio.
 E l’amore di Dio è così infinito che basterebbe richiamare alcuni passi della Parola per rimanere storditi.
 Ad esempio lo stupendo passo di Isaia 49, 15:
 “Si dimentica una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai”.
Una dichiarazione sublime di amore materno.
 O ancora, spulciando gli scritti del profeta Osea, 11, 1-4:
 “Io ho amato questo popolo. Ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare”.
 Sarebbero infiniti gli esempi, magari leggendo il “Cantico dei Cantici”, in cui Dio ci parla con la bocca di un innamorato. Come non ricambiare con amore totale, radicale e spremo verso gli altri? L’amore, dice San Paolo, deve essere reciproco e circolare, l’uno per l’altro, arricchimento di tutti, un dare e un ricevere.
Il Libro dell’Esodo in questa domenica, ribadisce tutto ciò.
 Chi opprime il debole oltraggia colui che lo ha fatto, dice il libro dei Proverbi (14,31).
 Ecco il senso del comando di Dio.
 Un occhio di riguardo alle vedove, agli orfani, ai poveri, i diseredati. La comunità deve circondarli di premure e amore perché bisognosi. Sarà poi, col Nuovo Testamento, che l’amore si trasferirà a tutti, non solo ai piccoli, diventerà amore e premura universali.

 La seconda lettura tratta, come di consueto, dagli scritti di San Paolo, ci trasporta nel mondo antico della comunità cristiana di Tessalonica, “modello dei credenti della Macedonia”, come si legge nel versetto 7.
 In effetti, a Tessalonica, la Parola di Dio ha un posto privilegiato nei cuori.
 I Tessalonicesi riescono a imitare il grande esempio di Paolo, attendono il dono messianico e hanno la forza dello Spirito nelle tribolazioni e persecuzioni.
 In più a Tessalonica è chiaro anche il compito che ogni cristiano ha insito in se stessi, quello cioè di evangelizzare tutti, con l’entusiasmo della fede, nell'attesa della nuova venuta del Cristo.

 Utile ricordare, in fondo alla nostra meditazione, le parole del grande teologo Barclay, che affermò: “L’etica cristiana può essere riassunta in una sola parola, amore”.

 Questo messaggio echeggia nel mondo sin da quando esiste la Chiesa.

mercoledì 22 ottobre 2014

Emozioni tranesi

Quest’estate sono stato a Trani, centro marinaro pugliese dell’XI secolo, per tre giorni.

Ho visitato un ex carcere, oggi uno dei castelli federiciani tra i più belli dei tanti dislocati nell'intera Puglia.
Ho visto questa rocca a pianta quadrangolare con il suo vasto cortile centrale, le torri quadrate, le mura possenti e fortificate.

Ho potuto ammirare, qualche passo dopo, una cattedrale aperta sull'Adriatico col suo alto campanile svettante sulla città, piena di opere d’arte e ricca di suggestioni, al centro di una piazza panoramica. 
Ho goduto, da spettatore privilegiato, di un tramonto da urlo, tra pietre bianche e acqua azzurra, mentre il solito via vai di gente proveniente dalla passeggiata sul mare, arricchiva di vita un momento magico.
Ho poi attraversato il dedalo di strade tortuose, una sorta di suk, i tipici mercati arabi all'aperto, e ho scoperto piccole e insospettabili chiese templari, case antiche del tempo svevo angioino.

Ho camminato lungo il porto, gustando passo dopo passo, l’atmosfera della "movida" notturna: le contraddizioni di un popolo fatto di povera gente che pesca e che cerca di vendere polpi ancora guizzanti e ricci di mare dagli aculei vibranti, a ricchi turisti dall'apparenza facoltosa col naso in su
per carpire la bellezza di una città senza tempo.

Ho preso poi l’auto e la meraviglia si è sprigionata a pochi chilometri di distanza:

Le campagne di Ruvo di Puglia costellate da masserie, uliveti e vigne, dolmen, monumenti megalitici di 3500 anni fa;

Ecco Troia, dal nome forse imbarazzante, con la sua Chiesa madre, gioiello del Romanico barese e le mura impreziosite di sculture in pietra inquietanti e magnifiche;

Castel del Monte, un mondo onirico, esoterico, affascinante e misterioso, racchiuso in una rocca inedita, un maniero unico al mondo, frutto della follia geniale di Federico. Il meglio dello Stupor mundi, il sovrano impareggiabile;

Canosa di Puglia, all'inizio delle Murge, che la leggenda vuole fondata da Diomede con la cattedrale dedicata a San Sabino e dove si trova la tomba del Primo Crociato della storia, Boemondo;

Bisceglie con il piccolo, delizioso porticciolo e lo splendore delle mura medievali del centro storico;

La città della disfida, Barletta col castello svevo, sede di mostre d’arte contemporanea, lo storico Palazzo della Marra, affascinante viaggio nell'Ottocento;

Infine Margherita di Savoia con le Terme e la produzione di sale nelle saline, zona umida e casa di grandi uccelli acquatici, tra stormi di fenicotteri rosa tra vasche di evaporazione dell’acqua dai mille colori tra arancioni e gialli pallidi.

Trani sarà pure una delle tante città sofferenti del Meridione di questo Paese allo sfascio, ma, vi assicuro, i locali tutti pieni davano la sensazione di essere in un mondo ideale fatto di gioia e cose belle.

Ho immaginato il riscatto di un Sud povero dove si può ancora ricominciare a scommettere sulla cultura del bello che parte da Trani, i Trulli di Alberobello e arriva ai Sassi di Matera, passa dal barocco leccese all'infinita magnificenza della Valle dei templi in Sicilia.

Il Sud è ricco di risorse umane, storiche, artistiche.
Il Sud è il cuore di uomini e donne che in un Paese normale non dovrebbero essere costretti a emigrare.
Il Sud ha voglia di riprendersi tra le mani il suo futuro.

A Trani hanno già cominciato!

martedì 21 ottobre 2014

Rimaniamo connessi tra noi nell'amore

Tra i miei nuovi contatti di Facebook sono arrivate, poco più di un anno fa, due simpatiche amiche che vivono nell'altra parte del mondo, a San Paolo in Brasile.
 Dopo le inevitabili richieste di amicizia, sono arrivati i “mi piace” sulle foto, i saluti via mail, gli scambi di opinioni.
 La scorsa settimana, erano in quattro, sono venute a Teramo, ultima tappa di un bel viaggio in Italia che ha toccato Taormina in Sicilia e poi su fino a Roma.
 È stata la splendida occasione per conoscerci e trascorrere insieme qualche bella ora in giro per la provincia teramana, tra Civitella del Tronto e Campli.
Adesso il virtuale è superato.
L’amicizia vera è sancita!

Perché vi racconto questo?
Ho provato un senso di gioia quando un amico caro che ha tutta la mia stima, mi ha detto che uso internet e Facebook in particolare, in maniera incredibile e che tutti dovrebbero prendere esempio dai miei post. Si diceva contento di leggere la mia frase del giorno tratta dalle Scritture, lui che non apre quasi mai la Bibbia.
Si meravigliava di come la città fotografata dalla mia Nikon, risultasse spesso inedita e sorprendente. Si diceva anche sollevato dalle ansie nel guardare un tramonto o un’alba nel mio profilo del social network.
Ho avuto un senso di soddisfazione non per vanità o compiacimento personale, ma semplicemente perché forse, mi sono detto, qualche volta riesco a creare una cultura seppur minima, circolare e non piramidale.
Spesso in questa società malata ci s’incontra ma non ci si parla più.
Siamo magari presenti ma la connessione ci allontana, ci impedisce un rapporto diretto con interlocutori reali.
E allora si fatica a dialogare con le persone.
Si perde l’uso della parola e si acquista la massima manualità nelle dita per usare tastiere di pc o di cellulari.

Eppure, credetemi, io sono sempre stato convinto che la rete, usata bene, è circolarità, incontro con il prossimo e i fratelli.
A volte in rete è possibile incontrarsi anche con Dio!
Internet è un’estensione della vita quotidiana, una bella integrazione per arrivare dove non è possibile per ovvi motivi di tempo e di spazio.

Ho immaginato cosa potesse dire il mio modello, Francesco d’Assisi, se avesse avuto a disposizione un social network!
Come avrebbe portato il messaggio del Signore nelle case di tutti, lui che è riuscito a fare tutto ciò senza mezzi tecnologici, solo con l’esempio di vita!
L’avrebbe forse definita sorella Rete?

Certo nella società di oggi soffriamo di esagerazioni e per alcuni la Rete è l’unico mondo e, badate bene, non parlo solo di ragazzini!
Invece i social network debbono essere semplicemente cassa di risonanza per messaggi positivi, continuazione della realtà di tutti i giorni e non l’unica vita!
Internet non deve spegnere il contatto umano ma, al contrario, valorizzarlo e chi ne fruisce deve essere maturo da discernere il bene dal male anche via web.

E allora mi sono detto che Francesco, poverello di Assisi ha passato gran parte della sua vita a pensare a nuovi modi di stare insieme, uno accanto all'altro, a prendere contatti in maniera inedita, a chiedere e a offrire, a essere connessi. E, se usati bene gli strumenti tecnologici non servono proprio a questo?

Nella mia mail arrivano saluti di persone che sono lontani e non potrei raggiungere, richieste di preghiere da parte di amici che sperimentano la malattia, commenti sulla vita di tutti i giorni da parte di conoscenti come fossimo in piazza, seppur virtuale, proposte di amicizie di individui di cui, precedentemente, non immaginavo neanche l’esistenza e con cui trovo di avere molte affinità .
Importante è non dimenticare che dopo il primo passo nel web, nulla potrà sostituire il guardarsi successivamente negli occhi, niente potrà surrogare il bisogno di gesti reali e concreti, non potremo le mani tese per poter stringere quello del fratello davanti.

Necessario rimanere connessi tra di noi realmente nel segno dell’amore. Un saluto caro a queste quattro nuove amiche brasiliane. Da oggi siete anche voi nel mio cuore!

sabato 18 ottobre 2014

Le Parabole di Gesù e le loro implicazioni

Parabola è un termine che può avere diversi significati.
Chiaramente indica anche le parabole evangeliche che dovremmo conoscere bene per apprezzarne la capacità di trasmissione di messaggi d’importanza vitale che il Signore vuole trasmetterci come fossero sms odierni.
Il desiderio di Gesù con le parabole è quello di condurci al Padre.
La parabola manifesta non solo un contenuto ma è un chiaro invito a lasciare il comune senso di giustizia umana per seguire le vie del Signore che sono molto diverse dalle nostre.

Ma il termine “parabola” ha il suo significato più profondo, credo, nell'invito a condividere scambi vitali con il nostro prossimo.
D'altronde come non ripensare alle parole di vita che Gesù regala:
“Le parole che vi dico non le dico da me stesso; ma il Padre che rimane in me compie le sue opere” (Giovanni 14, 10).
Cioè, Gesù con le parabole manifesta chi è il Padre suo che è anche il Padre nostro.

Occorrono agilità mentale e spirituale, oltreché passione e amore nel cuore quando leggiamo o meditiamo un passo del Vangelo e ancor più una parabola che ci costringe quasi ad aprire l’animo ad una novità rispetto alla nostra mentalità.
Ogni parola del Maestro apre una traiettoria verso il cielo per il nostro cammino di fede che solo attraverso la Parola, può raggiungere la completezza che può donarci gioia piena.

In forza di questo che abbiamo detto, ognuno di noi, ogni uomo, ogni donna siamo autori del Vangelo, abbiamo la dignità di profeti, ognuno di noi è chiamato a essere evangelista degli altri, attraverso un quinto Vangelo, sotto dettatura dello Spirito.

Se leggeste l’Evangeli Gaudium, l'esortazione apostolica di Papa Francesco, a un certo punto in un paragrafo è scritto:
“Si può dire che il popolo evangelizza se stesso per costante azione dello Spirito sul popolo di Dio …“. 
Siamo noi e lo Spirito.
A proposito dell'annuncio sul Vangelo nel mondo attuale, Bergoglio scrive di non lasciarsi rubare la gioia della evangelizzazione. Ogni cristiano è teologo diceva S. Ignazio.
Lo è un bimbo, lo è un anziano.
Dobbiamo imparare a comunicare quello che ancora dice l’Evangeli Gaudium nel passo dove si legge:
“Quello che hai scoperto, quello che ti aiuta a vivere e che ti dona speranza, dallo anche agli 
altri …“.
Bellissima questa visione di affratellamento in cui in ognuno c’è la fede di ognuno.

Una comunità in cui i protagonisti, gli attori principali non sono soltanto i preti, i vescovi o il papa ma ognuno di noi con lo Spirito.
Il Regno è dei piccoli!
Basta clericalismo, privilegi, poteri, accentramenti liturgici.
Basta con pastori che si ergono sopra al gregge, che conoscono poco l’arte dell’ascolto e parlano senza toccare i cuori, ma una Chiesa aperta e creativa con sacerdoti dall'inguaribile ottimismo evangelico e pieni di fede nello Spirito capace di fecondare ogni granello di questo mondo.

Nella società di oggi nulla è semplice ma tutto diventa ancora più complicato se a spingere le nostre azioni non è la passione.

giovedì 16 ottobre 2014

Gentilezza e tolleranza nei figli di Dio!

Mi è capitato di leggere una frase che mi è parsa bellissima, tanto che l’ho copiata e riposta in tasca, dentro il portafogli.
Diceva più o meno così:
“Quando sei nato tutti sorridevano e tu solo piangevi. Vivi in maniera che quando morirai, piangano tutti e tu sorrida”.
Spesso mi chiedo perché esisto e chi sono io.
Un giorno sono venuto alla luce, mi è stato dato un nome, sono cresciuto.
E che significato ha la mia vita? Solo la fede può dare risposte.
Quello che ho capito è che posso sottrarre alla banalità la mia povera esistenza solo se riuscirò ad essere in grado di far fruttificare i talenti donati da Dio.
Come tessera di un grandioso mosaico, come nota di celestiale melodia, siamo tutti nel mondo per fare la nostra parte, e renderlo armonioso.
Di sicuro è massimamente importante il rapporto con i nostri fratelli!
Saremo giudicati per la nostra tolleranza verso di loro!
La pazienza verso gli altri, l’essere pacifici può farci sorridere alla fine della nostra vita.
Perché chi ha pazienza e umiltà dice il Vangelo di San Matteo (5,9), sarà chiamato figlio di Dio!

Nel classico della spiritualità cristiana, il libro della “Imitazione di Cristo” (II,3), si medita che:
"Non è grande merito stare con persone buone e miti, è cosa questa che fa piacere naturalmente a tutti e nella quale troviamo facile contentezza, giacchè amiamo di più quelli che ci danno ragione …”.

Francesco d’Assisi che ben sapeva la difficoltà di sopportare gente scomoda ricordava nelle sue ammonizioni, in particolare la decima terza, di “essere miti, pacifici e modesti, mansueti e umili, parlando onestamente con tutti, così come si conviene ai figli di Dio”. (F. F.85)

La pazienza verso gli altri e il suo frutto, l’umiltà, oggi è merce rara. È un’arte sempre ardua da praticare in un mondo in cui le persone sono sempre più difficili, introverse, sospettose, strane e, a volte, un pochino carogne.
Il Signore nel chiederci di amare di più proprio costoro, ci chiede tanto ma è anche vero che, alla fine dei nostri sforzi, ci renderà il centuplo sicuramente.

Accogliere l’altro com'è veramente, accettare il suo mistero non è semplice.
Bisogna annientare se stessi per avvicinarsi alla riuscita di questo.

Il fratello difficile è egocentrico, inquieto, frustrato e dal carattere impossibile.
È un individuo che contrasta, che ti rende contrariato, che t’intralcia, che subdolamente trama alle spalle, disapprova il tuo operato, obietta, contrappone e dileggia sparlando di te agli altri.
 Tutto questo mette a dura prova l’umiltà che crediamo di avere e di cui spesso manchiamo.

 Chi può affermare di avere avuto in tali situazioni, umiltà e carità necessarie per amare, nonostante tutto, questo nemico?
Eppure dovremmo pensare che il fratello “difficile” è soprattutto un infelice non amato da alcuno! È un condannato alla solitudine e alla morte interiore! Se lo facessimo sentire amato davvero, forse i suoi atteggiamenti cambierebbero miracolosamente.

Pazienza e umiltà, ripeteva S. Agostino, non sono mai troppe.
La virtù, però diceva San Francesco, si vede nella prova, quando si lotta con rigore, contro se stessi e le sicurezze si perdono dietro a urla e risentimenti.
La pazienza è tanta o poca? Tutti noi abbiamo fatto esperienza di ciò e, in cuore nostro sappiamo fino a quando siamo miti e umili, se lo siamo davvero!
Forse sarebbe il caso di meditare ogni mattina l’inno alla carità, quella superba, ineguagliabile pagina che San Paolo, sotto il divino intervento dello Spirito Santo, ha regalato al mondo non solo cristiano ma ad ogni individuo di buona volontà e apertura sociale.

Rileggiamo col cuore in mano:
“La carità è paziente, è benigna, non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode delle ingiustizie, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta … “
(1 Corinzi 13, 4-8)

Dio è carità e solo chi vive nella carità è unito a Dio. Scriviamoci una frase e portiamola sempre con noi, è di Raoul Follerau:
“Un sorriso costa meno dell’elettricità e dona più luce!

mercoledì 15 ottobre 2014

La bellezza è divina. Non trascuriamola!

Da piccolo collezionavo di tutto, dalle figurine Panini ai tappi di bottiglia.
La prima collezione che feci fu quella dei sassi.
 Casa mia divenne una sorta di campo pietroso.
 Pietre ovunque, che brillavano come scintille di luce sui comodini, sui tavoli, sulle mensole, per la disperazione di mia madre che doveva ogni giorno spolverare.
La terra non era solo sotto i miei piedi ma anche nella mia testa.
 Mi chiedevo chi avesse creato tanta varietà e forme nelle pietre.
Qualche anno dopo l’amore per la terra mi rivelò l’esistenza di un Dio Creatore, cesellatore di zolle e mirabile inventore di mari, fiumi e laghi.
 La terra mi parve un delizioso cioccolatino bon bon, fuori la crosta di cacao, dentro il morbido ripieno tutto da gustare.

Leggendo una delle fantastiche avventure di Sherlock Holmes, il famoso personaggio nato dal genio di Arthur Conan Doyle, capii che è sufficiente osservare un dettaglio, seppur minimo, per comprendere le molteplici connessioni e risalire al generale.

Fu la scoperta della mia vita!
Un fiore porta a Dio, il “generale di tutto”, una goccia d’acqua di mare puoi risalire al Mediterraneo e a chi lo ha inventato, cioè Dio.
Tutta la vita, diceva il famoso detective, è una grande catena la cui natura si rivela a chiunque ne osservi un solo anello.

E, se ciò che ci circonda, è così bello ma anche così fragile, è perché la perfezione fatta dal Creatore è affidata alle mani improvvide dell’uomo che gestisce tutto con poca accortezza.

La bellezza è divina e trascurarla è un po’ come distruggerla.
Collezioniamo bellezza!
Curiamo la creazione. È la missione di noi figli di Dio!

venerdì 10 ottobre 2014

XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO A

"La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni"
Isaia 25,6-10°; Salmo 22/23; Filippesi 4,12-14 19-21, Matteo 22, 1-14 

L’arte di vivere, ma anche quella di morire, praticamente la stessa cosa, consiste nel darsi un fine che valga, più di ogni altro e nell'adeguare le azioni che si compiono in esso.
Per elementare coerenza non dovremmo perderci nelle miserie quotidiane che rischiano di soffocarci e ci impediscono di sollevare gli occhi.
Spesso, invece, passiamo il tempo così, tra affanni quotidiani e preghiere dette male.
Non ci rendiamo conto del mistero in cui siamo immersi.
È comunque una via scomoda quella di stare nel mondo senza cedere allo spirito del mondo, con la capacità di spogliarsi di una mondanità facile, per abbracciare il vero Regno dei Cieli.

Le parabole che ci introducono nel Regno di Dio, regalano nei Vangeli, momenti di gioia che aiutano a convertire i nostri cuori opulenti.
Ma, occorre ricordarlo, raggiungiamo questo Regno solo aderendo a Cristo spogliato e umiliato in tutto, crocifisso e risorto.

Nel vangelo di questa 28 domenica del T. O. 22esimo capitolo di Matteo, il Regno è come una festa che Dio Padre ha organizzato per invitare gli amici alle nozze di suo Figlio con tutta l’umanità. Gesù intende convolare a nozze per fecondarci della sua grazia.
Secondo gli usi orientali, le nozze si celebravano con un banchetto nuziale e se erano regali, i servi portavano a ciascuno un abito di circostanza, per accrescere splendore alla festa.
Il Signore aveva invitato gli Ebrei alle nozze eleggendoli come prima famiglia della sua Chiesa. Invece essi si erano concentrati in una vita materiale, deridendo e, a volte, uccidendo i profeti che,
man mano si erano presentati per conto di Dio.

Attualizzando la Parola:
Accettando l’invito, ognuno di noi partecipa al grande piano della salvezza universale, facendo parte della grande chiesa, del grande popolo di Dio, o meglio, come insegnava la parabola di domenica scorsa, della sua grande vigna che produce frutti buoni.
Ma qui dobbiamo essere ancor più onesti e chiederci:
“In quali personaggi ci riconosciamo nella parabola?”.
Siamo quelli che rifiutano l’invito come coloro che si ostinano a non credere al messaggio di salvezza, alla buona notizia che porta il Vangelo?
O addirittura siamo quelli che credono a intermittenza, a volte si e a volte no?
Noi con inevitabili alti e bassi, abbiamo la fede e non possiamo certo riconoscerci in queste figure, tanto meno in quella del commensale allontanato che non indossa vesti appropriate per la festa. L’invitato senza abbigliamento consono rappresenta tutti coloro i quali pretendono di far parte della festa senza mutare abito, cioè senza uniformarsi allo spirito nuovo chiesto da Dio, senza cambiare il cuore di pietra in uno di carne!
Viene cacciato nelle tenebre di una vita estranea alla grazia.
Noi dobbiamo ambire a essere i servi di Dio, quelli inviati dal padrone per invitare alle nozze gli amici, i buoni come i cattivi.

Dobbiamo portare tutti alla festa del Regno dei Cieli, attraverso le nostre opere buone, i nostri esempi. San Francesco ambiva proprio a questo: trasportare tutti, ma proprio tutti, al cospetto di Dio, nei cieli eterni!
Se avessimo la piena coscienza di questo grande compito, non perderemmo neanche un minuto per portare a compimento l’opera di Dio.

La parabola si conclude con Gesù che ammonisce che molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti.
Certo il Signore ha mille porte di misericordia per salvare tanti, ma gli eletti sono i santi, coloro che hanno vissuto veramente la Parola.
E questi sono veramente pochi. Il piano di Dio non prevede privilegiati al banchetto ma una teoria di personaggi che nel mondo ebreo non avrebbero trovato posto a tavola: poveri, sofferenti, emarginati. 

Anche la prima lettura tratta dal Libro di Isaia, capitolo 25, racconta di un banchetto.
Siamo davanti a uno dei capitoli del Secondo Isaia.
Sul monte Sion il Signore prepara un pranzo sontuoso, regale.
Siamo tutti invitati, tutti gli uomini di ogni epoca.
Prima di accedere al banchetto, dobbiamo solo liberarci della cecità che opprime i nostri occhi, quel velo di lacrime che appanna la vista, frutto della miseria umana, la paura della morte.
Il nostro Dio regalerà gioia eterna.
La sua mano si poserà sul monte della vita, regalando felicità.
 Allora si che abiteremo per sempre nella casa del Signore, come promette il Salmo 22. Il nostro Dio ci guiderà per il giusto cammino, il suo bastone e il suo vincastro ci daranno sicurezza e Lui preparerà
una mensa regale per tutti noi.

La seconda lettura propone la conclusione della lunga lettera ai Filippesi di Paolo che ci ha accompagnato in diverse domeniche.
L’apostolo si dice pronto a tutto, sa vivere nella povertà come nell'abbondanza.
Ha con sé il Cristo, “Colui che mi dà la forza”.
Benché sia nuovamente prigioniero, nulla può togliere a Paolo la gioia, perché nulla può togliergli Cristo.

Come lui, dovremmo imparare ad essere contenti, qualunque siano le circostanze: successo o difficoltà, salute o malattia, bello o cattivo tempo, se siamo “contenti del Signore”.

Per concludere: Raccogliamo l’invito alle nozze di Dio. Viviamo con pace e amore i nostri giorni con un vestito adeguato che è la buona vita, con un cuore aperto a Dio, senza allarmarci ad ogni cambio di stagione, abituandoci, come dice Paolo sia alla fame che alla sazietà.
 Rivestiamoci di Cristo e rechiamoci con gioia alla festa del Regno.

sabato 4 ottobre 2014

Padre Pio Scocchia: lo sguardo di un bambino, il rigore di un adulto.

Quando una persona cara se ne va per sempre da questo mondo, è come se tu stesso andassi via.

Se ti lascia dopo aver trascorso con lui giorni belli di unione fraterna sotto l’esempio fulgido di San Francesco, comune modello di aspirazione verso Dio, tutto appare ancora più incomprensibile.

Pio Scocchia, frate innamorato del poverello di Assisi, per noi del terz’Ordine teramano, era più di un padre spirituale.
 Ciò che lui pensava, ciò che lui amava, ciò che lui era, oggi non è più e questo lascia tutti noi sgomenti e consci che una parte della nostra esistenza, quella spirituale, non sarà più uguale.
Questi sentimenti mi agitavano, fra nostalgia e memoria, nel ricordo della sua fanciullesca felicità visitando il santuario de La Verna, cuore del Tabor francescano e la sua prorompente vitalità nei nostri incontri di fraternità.
Un’avvicendarsi continuo di ricordi, immagini, riflessioni.
Commozione e rimpianto si alternavano mentre lo salutavo per l’ultima volta nella chiesa della Madonna delle Grazie gremita da una moltitudine di amici venuti da vicino e da lontano, dai fedeli e, soprattutto, di sacerdoti uniti a S.E. il vescovo Michele Seccia per commemorare un piccolo e umile frate.

Ricordavo i suoi numerosi scritti che mi aveva donato perché li leggessi attentamente, le sue parole che mi incitavano a tornare a frequentare con assiduità la fraternità quando, accecato dal risentimento, me n’ero allontanato immerso nella superbia.

Mentre due lacrime solcavano il mio viso, ecco che si accese la liturgia della Parola e poi quella dell’Eucarestia.
Pensai a quanto gli erano cari i testi sacri, a quanto teneva alla liturgia, ai canti nella celebrazione, espressione di fede e speranza e, d’improvviso, sentii che lui era in mezzo a noi.
 Magari era proprio lì sulla panca accanto alla sacrestia mentre tutti recitavamo il Rosario a Maria Vergine.
 Credetti quasi che stesse rimproverandoci per l’ennesima volta delle stonature, delle voci fuori le riga, di chi stava proclamando la Parola, magari senza la dovuta espressione.
 La sua presenza era una verità che ognuno di noi, con la sua sensibilità avrebbe portato con sé, fuori
dal santuario a fine celebrazione.

 Chi è stato per tutti Padre Pio? Chi era Padre Pio per me e per tutta la comunità del santuario?
 E poi, chi era questo frate minore per la Chiesa che gli stava tributando l’ultimo saluto con l’acqua battesimale e l’incenso riservato ai corpi gloriosi che vanno al cospetto di Dio Padre?
 Credo di poter rispondere a nome di tutti, a mente fredda, dopo un’estate trascorsa in meditazione di questo evento sì terribile ma anche di enorme importanza spirituale, che Pio era un frate ma anche un prete innamorato del Vangelo.
 Può sembrare banale a chi lo sapeva già in questa duplice veste sacerdotale ma non lo è.

 Occorre ribadire che Pio amava intensamente il Vangelo attraverso il “pazzo di Cristo”, quel Francesco che lui agognava farci conoscere in profondità e fuori dai luoghi comuni di chi lo vuole semplice ecologista da corteo e pacifista, poeta e innamorato della natura.

 Molti dimenticano che il santo di Assisi amava ripetere la parola “Vangelo sine glossa”, senza compromessi o aggiustamenti.
 Pio, memore di ciò, grazie alla sua vasta cultura e alla sua spiccata spiritualità, predicava la Parola con vigore profetico, con gesti burberi, a volte trasmettendo di se l’idea di una persona scomoda, qualche volta fastidiosa e difficile.
 Al contrario lui era conscio che la chiave di un uomo si trova negli altri e che il contatto con i fratelli illumina e fa scaturire la luce su noi stessi.
 Quante volte ripeteva che prossimamente ci avrebbe fatto scoprire un altro Francesco attraverso i suoi scritti in cui era “homo homini frater” e non “homo homini lupus”.
 Padre Pio altri non era che uomo di passione evangelica, integro nel rigore e profondo nella testimonianza, un uomo che soffriva di questi tempi in cui ci si allontana facilmente dalle chiese, perdendosi in individualismi esasperati non graditi a Dio.
 Era uomo di squisita sensibilità, di ricchezza esplosiva nell’anima che ha amato la “regola di vita” del poverello di Assisi in un mondo scosso da progetti di vita senza regole, valori e ideali. L’anima esigente di padre Pio soffriva le contraddizioni e le inerzie di una Chiesa a volte figlia dell’attuale società, ma non ha mai derogato, neanche in un minimo passo, alla missione e al carisma destinatogli da Dio.
 Era, insomma, un figlio inquieto del Vangelo che non è mai venuto meno al suo impegno critico anche verso la stessa fraternità che tanto amava e che abbracciava nelle sue preghiere.

Un frate uomo di pace, certamente, ma che non ha mai alzato bandiera bianca contro le azioni sbagliate di questo mondo scristianizzato.
 Ha lavorato per il terz’Ordine senza risparmiarsi, conscio che a San Francesco non piacevano i “frati mosca”, quelli che fanno dell’ozio la ragione di vita, nascondendosi dietro false contemplazioni.


 Un figlio di Francesco che non tutti hanno capito,  col cuore di un bambino, che è stato in grado di conquistare comunque la “perfetta letizia” mettendo in pratica, alla lettera, il messaggio d’amore del Vangelo. Pensando a lui scorrono nella mente le parole bellissime di Arrigo Levi che ricordava:
 “Dio lo si incontra là dove è testimoniato”.


Se vuoi iniziare un cammino nel cuore della spiritualità francescana, il Terz' Ordine dei laici di Teramo ti aspetta alla Madonna delle Grazie alle 21,00 di ogni lunedì. Informati al santuario
 mariano! 
Per i ragazzi c'è un bel cammino di fede nella GIFRA, giovani francescani!

giovedì 2 ottobre 2014

XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Isaia 5, 1-7; Filippesi 4, 6-9; Matteo 21, 33-43; salmo 79/80 

La liturgia della Parola della XXVII domenica del T. O., nella sua seconda lettura, riporta le ultime esortazioni di Paolo alla comunità di Filippi.
 Una di queste ammonizioni, in particolare, colpisce tutti noi che corriamo e ci affanniamo ogni giorno: 
“Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste”. 

 Colpisce soprattutto la grande fede dell’Apostolo.
Lui non ha dubbio alcuno sulla Provvidenza, sull'intervento del Signore nella vita di ognuno di noi. Paolo è un germe vivo di speranza, un uomo che ha saputo porre in atto la Parola di Dio, portandola a tutti come messaggio di vita.
 Beati noi se riuscissimo a porre in atto ciò che ci viene consigliato.
 La Parola di Dio, in molte situazioni, soprattutto nei salmi, ricorda che non bisogna porre la propria speranza sugli uomini.
Siamo polvere che il vento disperde, cosa crediamo di poter fare?
Anche in più passi dei Vangeli, Gesù non manca spesso di istruirci all'affido dei nostri affanni a quella Provvidenza che si chiama Spirito Santo.
Dice che a Dio si affidano anche le piccole esistenze degli uccelli del cielo che non ammassano cibo per il futuro o sostanze, o ancora dei gigli del campo che, senza far niente, diventano belli nei colori e nelle forme, grazie all'intervento del Creatore.

“Di tutte queste cose- ammonisce il Signore- vanno in cerca i pagani … non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, di quello che indosserete … (Mt6, 25-34).

Come è vera questa Parola in un mondo d’oggi dove ovunque si trasmette sfiducia, timori per il futuro, pessimismo e rassegnazione.
La nostra vitalità deve tendere ad una vita maggiore, più grande che è ben sopra le nostre teste.
Noi siamo come fiori di campo il cui corpo sfiorisce ma che lasciano profumo intenso, nota viva di gioia nel mondo.
 Una cosa fantastica, credetemi, della quale non ci rendiamo conto quasi mai, presi dalle vicissitudini dell’esistenza terrena dove forze del male vorrebbero atterrirci con la paura dell’economia che va a rotoli, del futuro che è nebuloso, della possibilità di ammalarsi e soffrire o di dover fare a meno di una persona cara. Fateci caso.
 I giornalisti su carta stampata o sui Tg televisivi ci spaventano con profezie catastrofiche che deprimono gli animi, buttando ombre inquiete sui prossimi anni della nostra vita. In tutto il loro vocabolario e nello stile forbito che indubbiamente hanno nello scrivere articoli, non esiste una parola che si chiama Provvidenza.
Neanche un sinonimo che ci si avvicini. Si azzerano quasi le aspettative verso l’intervento di Dio.
Il proverbio che diceva “aiutati che Dio ti aiuta”, oggi è cambiato in “aiutati che Dio non c’è”. Eppure ogni paura di cui soffriamo è contro la volontà di Dio e la Parola lo ribadisce molte volte.

 Il messaggio quindi è forte e chiaro: nel nostro cuore e nella nostra mente ci deve essere la certezza dell’intervento di Dio.
Sarebbe consolante fare tutto come se dipendesse da noi stessi, ma sapendo bene che tutto dipende da Dio che opera per il nostro meglio. A volte il nostro meglio non è quello che crediamo, ricordiamoci le parole di Dio di due settimane fa: “Le mie vie non sono le vostre vie …”. Continua Paolo nelle esortazioni e nei consigli ricordando che la preghiera genera serenità e gioia anche in mezzo alle angustie.
Non è il mondo a darci pace, dato che non è in grado di offricela ma è la grazia di Dio che si spande in chi prega.
C’è comunque bisogno del nostro impegno quotidiano e l’Apostolo dice che “quello che avete imparato da me mettetele in pratica e avrete pace …”.

Occorre una mente libera dalle angustie del mondo per ricevere le sollecitazioni del Signore e dare spazio a pensieri edificanti.
E il pensiero che può liberarci dalle angustie è questo: Nessuno è ordinario. Ogni essere umano è straordinario perché Dio non ha creato persone inutili. Siamo tutti speciali per merito di Dio. E il nostro Creatore mai ci abbandonerebbe.
Non abbiamo bisogno di essere un grande pittore, un leader, non abbiamo bisogno di essere grandi, lo siamo già!

 Con la prima lettura di Isaia, siamo davanti a un capolavoro della poesia ebraica che inizia quasi come parabola piacevole, riposante, per terminare in un crescendo inquietante fatto di delusione e di attesa frustrata. Già secoli prima si insinua il giudizio severo del padrone che, con amore dissoda, sgombra di pietre la sua vigna, la colma di viti pregiate per far sì che produca frutti buoni. Incredibilmente la vigna dà acini acerbi. Naturalmente l’allegoria è chiara.
La vigna del Signore è il popolo infedele di Israele, colmato di doni che restituisce solo del male. Siamo noi la vigna che produce frutti acerbi.
Il Signore è lì che aspetta un buon raccolto dalla nostra vita. Lo ribadisce il salmo dove si alza la preghiera di chi si pente della sua condotta e urla:
 “Da te non ci allontaneremo mai più … fai splendere il tuo volto e saremo salvi … visita questa vigna e proteggi quello che la tua destra ha piantato “.

 Il Vangelo di Matteo continua con una nuova parabola sulla vigna che contiene solenni avvertimenti alle autorità religiose d’Israele, le cui macchinazioni contro Gesù sono denunciate apertamente dal Figlio di Dio.
Il brano del Vangelo proclamato in questa Ventisettesima Domenica del Tempo Ordinario corrisponde ai versetti 33-43 tratti dal capitolo 21 del Vangelo di Matteo
 Questa parabola si trova anche negli altri Vangeli sinottici ed in particolare nel Vangelo di Marco, 12, 1-12 e Luca 20,9-19.
Viene proclamata da Gesù nel contesto dei discorsi nel Tempio di Gerusalemme e quindi è rivolta alle persone nel Tempio compreso i sacerdoti, i capi del popolo e la gente comune. Da un punto di vista cronologico siamo nella settimana che precede la Passione. Nella vigna accade una vera e propria storia di violenza, un crescendo di comportamenti non giustificabili, un delirio che non trova motivazione.
Gli assassini, dopo aver bastonato a morte i contadini inviati dal padrone, decidono di fare violenza anche al figlio del padrone, proprio perché l’erede, e cosi: “lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero”.

I vignaioli omicidi sono i capi religiosi di Israele. Il loro atteggiamento vile non ostacolerà la salvezza. Essi rifiutano l’appello alla conversione e su di loro pende il giudizio inesorabile di Dio. Non potranno arrestare il cammino di salvezza perché il vero Israele è fatto di fedeli e poveri del Signore. Sono loro i veri appartenenti al popolo di Dio, diversi tra loro per razza, cultura e mentalità ma uniti nel nome di Cristo.
Per ottenere la salvezza, anche noi dovremo riconoscere che Cristo è la pietra angolare sulla quale poggiare la nostra vita!

Qui diventa palese l’ammonimento del Vangelo:
 ”Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?", 
chiede Gesù a chi lo ascoltava allora nel Tempio ed ora a noi attraverso la Parola. La risposta è ovvia: i contadini verranno puniti e sostituiti con chi darà onestamente la sua parte di frutti. E badate bene non può esserci altra risposta... anche gli interlocutori di allora non possono che affermare in questo senso la giustizia dei fatti.

La considerazione da fare per la nostra vita è: Noi, servitori della vigna, siamo fedeli oppure servitori “assassini”…
Siamo in grado di fare posto a Gesù, il figlio del padrone, nella nostra vita? Questo approccio attualizza il Vangelo proclamato in questa domenica alla nostra vita.

mercoledì 1 ottobre 2014

Francesco d'Assisi: progetto di vita!

Assisi è come un mantello di pietra scura disteso sulle pendici del monte Subasio, fatto di case, campanili, muraglie medievali e giardini.
È sicuramente una città unica al mondo ed è certamente l’unico luogo, dove poteva nascere Francesco, uno dei santi più grandi del mondo cristiano, l’innamorato di Gesù e del suo Vangelo.

Per me, che spesso dirigo la mia auto verso questo bellissimo luogo dell’animo, Assisi rappresenta il mondo ideale della contemplazione e meditazione.
Tutto intorno al borgo, caratterizzato da vicoli antichi, scalinate, piazzette, si possono scorgere distintamente gli elementi essenziali che hanno seguito, come mirabile bussola del cammino, San Francesco, “giullare di Dio”: acqua, grotte e boschi.
Più di una volta ho potuto respirare la stessa aria che inalava il serafico Padre, sin dal 1182, quando vi nacque da un ricco mercante di stoffe, Pietro da Bernardone e da Giovanna, detta Madama Pica.
Due genitori completamente diversi, lui uomo altero, iroso, preso solo dai suoi affari, lei, timorata di Dio, tutta presa a inculcare nobili sentimenti al giovanetto figlio.
Tutte le volte che mi sono trovato davanti alla tomba di questo santo che porto nel cuore e che cerco di imitare senza successo, ho sempre pensato a quale rivoluzione pacifica e silenziosa abbia realizzato in così brevi anni di vita, poco meno di quaranta.
Francesco è stato sin da bambino, come racconta il primo biografo, Tommaso da Celano:
“dolce d’animo, amabile nel tratto, ilare nel volto, affabile nel parlare, indulgente verso gli altri, severo con se stesso, grazioso in tutto”. 

Che ribaltamento di valori e di idee ha portato quest’umile uomo, apparentemente insignificante, nel suo mondo!
E come appare inspiegabile per chi non ha il dono di credere nello Spirito Santo, come abbia potuto trascinare fino a noi, per secoli, il suo messaggio dettato dall'amore senza fine per il Vangelo.

Un agiografo definì il Poverello,
“un ragazzo morto in età da uomo, ma col cuore pulsante di bambino”.
È sempre, meravigliosamente, un viaggio dell’animo sostare davanti alle pietre sepolcrali nella cripta della sua basilica in Assisi.
Sono quelle pietre che testimoniano quale scoglio in tempesta sia stata la vita del santo, perché abbia scelto deliberatamente di dormire in giacigli di roccia a testimoniare, meglio di mille parole, la forza di Dio insita in ognuno di noi.
Francesco è infinitamente più di un ecologista, di un santo celeberrimo nel mondo, più di un diacono che ha fondato ben tre Ordini religiosi.
Francesco è “semplicemente” copia perfetta di Gesù Cristo.
È colui che, per conto di Dio, ha voluto trasmetterci definitivamente, un messaggio semplice ma terribilmente difficile da porre in atto:
è Perfetta Letizia solo amare Dio e il prossimo come se stessi, senza se e senza ma. Amare gli uomini e tutto il creato di un amore talmente perfetto da travalicare secoli di storia, da rimanere in circolazione per sempre.

Francesco è l’uomo dell’amore, di quell'amore che schiaccia con la sua generosità, il suo illimitato altruismo, la sua generosità verso chi soffre, la sua immane capacità di perdono.

E se Francesco entra davvero nella tua vita, sei fregato!
Non puoi più esimerti dal sacrificio per gli altri, dall'adorazione per tutto il creato di Dio.
Francesco, amici miei, è un progetto di vita!
 Un progetto grandioso, folle, rivoluzionario, anacronistico, capace di creare l’impossibile. Un’esperienza unica di comunione di vita con Cristo che porta nel cuore “il sorriso di Dio” come quello di Francesco (cfr 1 Celano XXX, 84 – F. F.470.)

Se vuoi iniziare un cammino nel cuore della spiritualità francescana, il Terz' Ordine dei laici di Teramo ti aspetta alla Madonna delle Grazie alle 21,00 di ogni lunedì. Informati al santuario
 mariano! 
Per i ragazzi c'è un bel cammino di fede nella GIFRA, giovani francescani!