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giovedì 31 luglio 2014

Fiumi di pietra!

Tratto dal mio libro edito dalle Edizioni La Cassandra "Il mio Ararat" con la foto della vetta di Alessandro de Ruvo. 

“La tua casa è lì, dove sta il tuo cuore” (Plinio Il Vecchio) 

Parola d’ordine: viaggiare per conoscere la Creazione!
Le cinque regole d’oro del Marco Polo e il suo “Milione”, racconta Calvino per tutti i giramondo, impongono di conoscere la storia, i monumenti, i costumi, la fauna, la flora del luogo che si visita.

A volte immagino di essere un esploratore d’altri tempi , di accostare l’orecchio al suolo per scoprire cosa ci attende oltre.
È la sensazione che vive chi ama bighellonare attraverso la sua terra.

Per me il mondo è, innanzitutto roccia!
Credo che scavare la pietra, possederla, dominarla, è cercare e trovare Dio.
Dio è di pietra, la pietra è Dio. Perché la pietra è vita, è anima.

I luoghi aspri e selvaggi come il Gran Sasso mi rappresentano.
Comunicano il sogno di svegliarmi senza dover radere la barba, senza l’obbligo d’indossare una camicia ben stirata. Libero da convenzioni.
Il sogno, cari lettori, non va in vacanza, semmai s’inerpica in montagna con tenacia e passione.
Mi ha detto, più o meno così, il conosciuto dottor Speca, cardiologo a Teramo, in una bella giornata in ambiente in cui salivamo da ore verso la vetta di Pizzo di Moscio, sopra l’incantata foresta del bosco Martese del Ceppo.
Il posto è noto forse per gli episodi di guerra partigiana o per essere derivazione dell’antica via Metella, piuttosto che per quel paradiso in terra che rappresenta.
La sensazione che m’invade, ogni volta che ricordo questa foresta, è quella dell’immane fruscio rilasciato dai faggi alti come palazzi di quattro piani, ondeggianti per la furia del vento che gela il sudore sulla pelle. Giacinto Pannella, teramano famoso, agli inizi del ‘900 descriveva il bosco così: “a perdita d’occhio alberi e ancora alberi, senza sentiero alcuno”.

Nelle prime pagine di un libro memorabile, “La montagna incantata”, di Thomas Mann si legge:
“Per una salita ripida e costante che pare non debba finire mai, per una via scoscesa tra rocce selvagge, si monta davvero per l’alta montagna”.
Io non so se lo scrittore che fra l’altro i detrattori dicevano non avesse mai poggiato una mano su di una roccia, ma le labbra su di un bicchiere in osteria, infinite volte, metaforicamente abbia voluto parlare della vita e delle sue difficoltà.
So che per me la salita sui monti crea gioia infinita.
Che meraviglia vagabondare per cime tra prati, acque, sentieri!
Il mio “Abruzzo barbaro” è fatto di luoghi boschivi che incatenano l’anima.
Sono posti da amare sia con il sole, che con la brina che bagna la boscaglia, sia con il vento gelido, che attraversa montagne serene e rosee coperte di neve, sia con la nebbia, che incute terrore.
E quando sopra la testa passano gli uccelli a stormo perfetto, come aerei prodigiosi dalle ali fischianti, pare che il cuore scoppi per la gioia incontenibile di sentirti parte integrante dello spettacolo esaltante offerto dalla natura. Io non ho mai fatto arrampicata, ho vissuto la montagna con i piedi ben piantati a terra.

Credevo che i movimenti dei miei amici rocciatori fossero innaturali, quasi contorcimenti di lucertole impazzite.
Poi ho capito che chi si attacca ad una pietra non ha velleità di protagonismo ma, come afferma Mauro Corona, una vita spesa in ambiente, la roccia è una fasciatura, la garza che medica dallo stress della vita.

Per chi crede, la montagna è un luogo di Dio.
L’Antico Testamento vive i suoi momenti topici in alto.
Mosè fu il primo scalatore della storia. Salì innumerevoli volte sulle cime, l’ultima, il Sinai, per ricevere le tavole della Legge.
Sul monte Nebo (però siamo a soli 870 metri di altezza circa), guardò, struggendosi l’animo, la terra promessa negatagli. Poi morì, volando in alto.

Così pure Gesù, nel Nuovo Testamento sale su vette impervie pur di isolarsi al cospetto del Padre.
E allora dico che coloro i quali rispettano la montagna, amano il Creatore e la natura per loro è pura grazia nelle mani del Signore.

martedì 29 luglio 2014

La bella statua di S.Anna a Teramo!

La statua di S. Anna con la Madonna Bimba, custodita nella chiesetta a lei dedicata, antica cattedrale in Teramo è un’opera da poco restaurata che vale la pena conoscere meglio.

Don Cristian Cavacchioli, in occasione del ritorno dal restauro, ha voluto scrivere queste belle considerazioni da dedicare a chi vorrà visitare la chiesa e ammirare la statua.

Anna con i suoi capelli grigi e canuti è una donna anziana, scrive il Don, che rappresenta la vecchia alleanza, quella delle Legge Antica, quella di Mosè scritta su tavole di pietra.
Anna evoca il tronco di Jesse, padre del re Davide, Radice da dove discende Gesù secondo la carne (Romani 1,3).
Anna era un tronco sterile che non portava frutto! Il popolo spesso si era allontanato dal suo Dio.
Isaia aveva profetato:
“… Con le labbra benedicono ma il loro cuore è lontano da me”. 
Ma l’intimo di questo popolo appartiene al suo Signore ed è oggetto di amore eterno, stabile e inesauribile.
Il rosso della parte superiore della veste della santa richiama proprio questo amore di Dio che mai viene meno.

Don Cristian ricorda che, fino al Settecento, nella iconografia la dalmatica della Santa era rossa e solo nell'Ottocento venne schiarita in rosa o arancio.
La grandezza di questa statua è soprattutto il messaggio che il Dio di Anna è un Dio fedele, che non si stanca di perdonare, proprio come oggi spesso ci ricorda il nostro Papa Francesco.
Anna rappresenta il piccolo resto di Israele sottomesso a Dio (lo suggerisce, scrive don Cristian, il giallo ocra del mantello).
Il popolo attende e spera che da quel tronco secco nasca la Vita. Ed ecco che il tronco germoglia. Il verde dell’abito di Anna richiama a questa realtà, al miracolo della primavera che fa fiorire il deserto. Il frutto di Anna è Maria.
La Vergine coperta col velo bianco, segno di verginità, è:
“colei che, avvolta dal manto della giustizia è piena di grazia”. (Isaia 61,10 – Luca 1,28).
Il manto azzurro rappresenta il cielo a cui dobbiamo tendere per avvicinarci al Signore.
La Vergine nata da Anna darà alla luce il figlio di Davide, il Messia, l’Atteso da Israele e dalle genti, il Compimento della promessa, “la luce che illumina ogni uomo”. (Gv1, 9-19). La veste della Madonna con i fiori richiama il Cantico dei Cantici, quando al capitolo 4 recita:
“ Il profumo delle tue vesti è come il profumo del Libano. Giardino chiuso tu sei, sorella mia, sposa, fontana sigillata. Fontana che irrora i giardini, pozzo d’acque vive e ruscelli sgorganti dal Libano” (11-12.15).

Infine uno sguardo attento alle mani della Vergine Maria che accarezzano il ventre, indicando col gesto il futuro ingresso di Cristo Salvatore nel mondo.
Quindi questa semplice statua è cristocentrica. Il fulcro di tutta la scultura è proprio il grembo di Maria! “Così è germinato questo fiore”
(Paradiso XXXIII, 9).

Dagli studi di Don Cristian Cavacchioli. 

lunedì 28 luglio 2014

E' l'amore che ci porta a Dio!

Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. (Prima lettera di san Giovanni apostolo 4,7) 

Avevo un assistente spirituale nel terz'Ordine francescano il quale non si stancava mai di ripetermi che ciò che conta non è il far molto, ma il mettere molto amore in ciò che si fa.
E mi diceva pure, quando gli rendevo conto della mia ansia di sapere, di capire, di conoscere, che è l’amore e non il sapere in questa vita a portarci a Dio.

Pensiamoci un po’amici cari:
L'amore di noi creature è volubile, limitato nel tempo.
L'amore che Dio ha per noi è, al contrario, infinito nell'intensità, un abisso incomprensibile, un mare senza spiaggia e senza fondo.
Mi viene in mente l'amore per il proprio bimbo da parte di una madre. Pensiamo sia illimitato! Non è che solo un raggio del sole dell’amore di Dio.

Sentite questa bella storia.
“Chi vuoi diventare tu da grande?” chiedeva Padre Turoldo ai ragazzi a cui insegnava. Gli rispondevano chi un infermiere, chi uno scrittore, chi un calciatore, chi un attore.
Nessuno dava la risposta che il santo uomo cercava:
 “Voglio diventare un uomo che ama”.
 Come potrebbe un adolescente rispondere così, immerso com'è in una società che ha smesso di contemplare il mistero dell’eterno, che ha abolito la spiritualità dalla vita, che spende l’esistenza in posizione orizzontale, travolto da ritmi che impediscono la riflessione saggia su chi siamo realmente.
Una società in cui vige la sopraffazione dell’altro, il risentimento, la paura dell’altro.

Dio è uno di noi, è nel nostro sangue, si mescola alle nostre sofferenze, ai nostri dubbi e noi non ci accorgiamo minimamente della sua presenza discreta.

Se percepissimo l’Assoluto in noi conquisteremmo l’amore di cui parla San Giovanni nel capitolo 4 della sua Prima e stupenda Lettera:
“Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri. Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi e l'amore di lui è perfetto in noi”.

Amando si raggiunge la felicità, parola ormai desueta e impossibile da decifrare.
Il vero problema, lo sussurriamo altrimenti ci facciamo molti nemici, è la superbia. La madre di tutti i mali, di ogni peccato che inquina le coscienze.
Eppure basterebbe aprirsi al Signore che entrerebbe nei nostri cuori come un’onda di piena che monta rapida e convulsa portando vita e soprattutto amore verso la creazione.

Qualcuno dopo aver letto queste righe potrà obiettare:
“Come si fa ad amare? Non ci riesco!”.

Viene in soccorso la Parola. La Bibbia non è solo un Libro religioso e basta. È molto di più anche per chi non crede. Monsignor Gianfranco Ravasi, biblista e presidente del Pontificio Consiglio per la cultura lo definisce “il grande codice di tutta la cultura dell’Occidente.
Anche per chi non vive un’esperienza di fede troverà una realtà che aiuti a ravvisare quanto di più autentico si possa dire del genere umano.
 Per me la Bibbia è parola di Dio, una lettera d’amore indirizzata a noi dal nostro amato e non un freddo libro di precetti come pensa un mio collega di lavoro, ateo convinto.
Non capisco un acca di filosofia e a scuola in questa materia ero impacciato ma so che quando ho problemi nell'amare gli altri, quando ho del risentimento verso gli altri, quando sento montare il disprezzo verso qualcuno, apro una pagina a caso e, leggendo, trovo una via di uscita, sempre!
 Quanto meno, una speranza.

La Bibbia è come un manuale indispensabile per vivere meglio e capire il mondo.

sabato 26 luglio 2014

Il discepolo

Immagino così spesso di parlare con Dio di essermi convinto nell'intimo di conoscere il suo sogno ricorrente. Credo che il Signore desideri sorpassare il cammino di ogni uomo per attenderlo alla frontiera con il sorriso stampato sul volto.
 Noi siamo ignari di tutto ciò.
Fin quando non siamo chiamati ad alzarci, non conosceremo la nostra altezza. Ma se riusciamo ad alzarci davvero, la nostra statura sarà al cielo. Lo scriveva Dickinson, autore di molti libri immortali, non certo io con la mia inutile penna.
 Però di una cosa sono certo. Ho sempre anelato ad alzarmi.
È come se mi sentissi chiamato all'infinito, tipo una vela che si spiega per catturare il vento.
Questo desiderio di una vita verticale mi ha portato sopra quasi tutte le cime abruzzesi, convinto com'ero che si trattasse di amore per la montagna.
Certo, era anche quello, ma dopo molti anni ho capito che, inconsciamente, avevo dentro la parola della Bibbia rivolta a tutti gli uomini: “Alzati e và!”. Io ce l’avevo dentro perché dono di Dio e non per mio merito. Tutti noi abbiamo una forza di gravità che non è solo terrestre ma chiamerei celeste che ci attrae verso l’alto. Tutti, dico, proprio tutti.
 Qualcuno non sa di avere questa propulsione verso le altezze dei cieli. E allora viene governato erroneamente dalla forza di gravità terrestre che tende a livellarlo verso il basso e a farlo rimanere a testa in giù come un baccalà appeso a seccare.
Eppure sin da bimbi, appena ne abbiamo le forze, tendiamo a stare ritti in alto che sembriamo aghi di una bussola il cui nord è sull'immensità dei cieli.
Tutto il creato tende a Lui. Le maree si sollevano al ritmo che detta la volta celeste con le sue forze, l’albero sale verso l’alto chiamato dalla luce che manda il Creatore, così la spiga che cresce, si alza lentamente ma inesorabilmente per donare forza a chi la farà diventare pane.
Nel Vangelo non a caso si parla di come noi dovremmo essere lievito per gli altri per far salire la pasta della carità. La nostra vitalità, con buona pace degli agnostici, tende ad una vita maggiore, più grande che è ben sopra le nostre teste.
Noi siamo come fiori di campo il cui corpo sfiorisce ma che lasciano profumo intenso, nota viva di gioia nel mondo.
Una cosa fantastica, credetemi, della quale non ci rendiamo conto quasi mai, presi dalle vicissitudini dell’esistenza terrena dove forze del male vorrebbero atterrirci con la paura dell’economia che va a rotoli, del futuro che è nebuloso, della possibilità di ammalarsi e soffrire o di dover fare a meno di una persona cara.
Fateci caso. I giornalisti su carta stampata o sui Tg televisivi ci atterriscono con profezie catastrofiche che ci deprimono, buttando ombre inquiete sui prossimi anni della nostra vita. In tutto il loro vocabolario e nello stile forbito che indubbiamente hanno nello scrivere articoli, non esiste una parola che si chiama Provvidenza. Neanche un sinonimo che ci si avvicini. Eppure ogni paura di cui soffriamo è contro la volontà di Dio e la Parola lo ribadisce molte volte.

Mi chiedo spesso perché Dio dopo avermi fatto dono della fede abbia voluto contornarmi di amici non credenti. Se faccio la conta delle persone a cui voglio più bene, quasi tutti sono da considerarsi atei convinti più o meno.
Un giorno il mio amico Francesco, anche lui privo di fede, mi disse che la religione tende ad annullare la volontà degli esseri.
Noi che crediamo saremmo marionette nelle mani di Dio, seppure esistesse, che si divertirebbe a tirare i fili della nostra vita. Allora non risposi perché le nostre convinzioni erano troppo lontane, distanti anni luce l’un dall'altra. Se leggerà questo scritto saprà la mia risposta.

Cristo non è venuto in terra per soggiogarci alla sua volontà, né per renderci schiavi ma liberi di essere Dio. Perché nessun sistema di pensiero, nessuna teoria sulla vita potrà snaturare la natura dell’uomo che è, come dice la Bibbia, l’essere simile a Dio.

martedì 22 luglio 2014

La gioia del discepolo

“Vi do la mia gioia. Voglio che la mia gioia dimori in voi e che la vostra gioia sia piena”. (Giovanni 15,11)

Un articolo che parli di gioia può sembrare un’idea bislacca per qualcuno, fuori luogo in un momento dove i problemi soprattutto economici, impediscono anche un semplice sorriso.
 Come cambiare la tristezza in gioia per tutti quelli che soffrono?
Come rendere reali e non utopiche le parole del Vangelo giovanneo che al capitolo sedici, versetto venti promette: “La vostra tristezza si muterà in gioia …”.
Come riuscire a concepire un brutto avvenimento della vita, come inequivocabile segno di grazia, di bontà e tenerezza del nostro Dio?
Come sentirsi riempiti della felicità che viene dall'essere consci che Dio è nostro Padre e noi i suoi figli diletti?
Il Vangelo è la buona novella che dovrebbe portare gioia, ma noi, che pretendiamo la figliolanza con il Creatore, spesso abbiamo l’aspetto funebre, lugubre di chi non ha speranza nel futuro.
Diceva il grande filosofo tedesco Nietsche, ateo convinto:
 “Se la buona novella che porta tutta la Bibbia, fosse anche scritta nei volti dei cristiani non avreste bisogno di insistere perché i non credenti cedano all'autorità della Parola”.

La gioia, amici miei, la comanda Cristo che un bel giorno disse con chiarezza:
“Se mi amaste, vi rallegrereste …” eleggendoci tutti depositari della sua gioia.

Eppure la maggior parte di noi cristiani si affligge col Cristo, si sente inchiodata alla croce, sventurati e sfortunati, addirittura non amati. In Quaresima, tutti pronti come siamo ai segni esteriori, recitiamo la “Via Crucis”, nessuno che pensi di organizzare, nelle nostre parrocchie o comunità, una bella “Via della Gioia”. Siamo anche capaci, professionisti come siamo delle disgrazie altrui, a essere vicini al fratello piegato da un dolore o da una situazione pesante con parole, preghiere, consigli.
Ci riesce, invece, difficile associarci a una gioia, forse per una sottile invidia o perché crediamo che la gioia stessa sia sempre degli altri e non la nostra.
Condividere la felicità del fratello, rallegrarci della sua gioia presuppone un grande altruismo, un disinteresse e un distacco da se stessi, un’apertura massima agli altri.

Diceva un Padre della Chiesa: “Non c’è che un solo mezzo per guarire dalla tristezza, non amarla!”. Fateci caso. Se qualcuno di noi prega in casa, ha sul comodino l’immagine del Cristo inchiodato in croce o, sopra la testata del letto, un crocefisso con Gesù che patisce. Sono pochi coloro che si mettono in preghiera davanti all'immagine del Salvatore che risorge.
Basta ripiegarsi su se stessi, basta affliggersi per quello che poteva essere la nostra vita e non è stata, per qualcuno che ci manca per essere volato in cielo, del quale ci desoliamo della perdita, ma non ci curiamo della sorte.
Basta anche piangere sugli acciacchi della salute, sui figli che non danno soddisfazioni. Così il nostro cristianesimo diventa inutile.
Diventano superflue anche le famose Beatitudini che non riescono, quando c’è tristezza tra i discepoli, a capovolgere i criteri mondani della nostra convulsa realtà, a dare compimento alla scala dei valori di Dio. Al contrario, a studiarle bene le Beatitudini, scopriamo il rovesciamento dei valori umani, perché i poveri, i perduti, quelli che dovrebbero immergersi nella tristezza, hanno invece validi motivi di gioia perché il Signore li rende fortunati e benedetti nonostante le sofferenze.
La gioia non è mai sola degli altri, è anche la nostra.
La possediamo già sin d’ora e non solo quando andremo nell'aldilà. La felicità di Gesù non c’è donata in un futuro che vorremmo lontano.

Se cominciamo a guardare e a vivere a partire da Dio, dice Benedetto XVI, papa emerito nel suo “Gesù di Nazareth”, se camminiamo in compagnia di Gesù, la gioia, quella vera, l’avremo anche in terra. Incominciamo da questa santa Pasqua 2014 a fare della nostra vita un inno di gioia, riuscendo a sorprenderci sempre della bellezza del creato così come accadeva per il nostro serafico Francesco.

Per ogni disgrazia che si abbatte su questa terra, ci sono migliaia di eventi che compensano il dolore con la gioia.
Sentiamo profondamente nostre le parole dell’Apostolo delle genti, il grande missionario Paolo di Tarso, pronunciate nella Seconda Lettera ai Corinti (4,8-10):
“Siamo tribolati da ogni parte ma non schiacciati, sconvolti ma non disperati, perseguitati ma non abbandonati, colpiti, ma non uccisi …”.
Lui, Paolo, uomo e non supereroe si sente sì all'ultimo posto, senza patria, insultato, calunniato e nonostante tutto, fa esperienza di gioia infinita e riconosce quanta misera sia la soddisfazione e la felicità effimera che dona il mondo.
 La croce per lui diventa il luogo della gloria, della misteriosa gioia del discepolo che si dona interamente e senza condizioni al suo Signore, con l’allegrezza nel cuore.

Riscopriamo, nella Risurrezione del Signore, la “perfetta letizia” del nostro serafico Padre Francesco, l’”Alter Christus”, il santo che veramente ha tradotto le Beatitudini nella sua esistenza umana in modo più intenso. Francesco era nella gioia perché aveva estrema fiducia nel suo Dio che non provvede solo ai fiori dei campi, al mangiare degli uccelli del cielo, ma si prende cura infinita dei suoi figli amati.

La vera bellezza!

Da quando a casa nostra abbiamo la cagnetta Tequila, bellissimo incrocio tra una dolce beagle e un bracchetto irrequieto, la vita è cambiata e vi assicuro in meglio.
Non so che idea abbiate voi degli animali e dei cani in particolare.
Non pretendo che la pensiate come me.
I botoli per me sono adorabili.
Se poteste vivere qualche attimo il loro modo unico di essere, di esistere, di porsi nei confronti del padrone, leggereste in questo la mano di Dio.
Se contemplaste, anche per soli pochi attimi, uno sguardo di quegli occhi giganti, rimarreste catturati irrimediabilmente.

Tequila è una bastardina ma, al contrario degli uomini per cui questo rappresenta un epiteto, spesso a ragione, nel caso della nostra cagnetta e dei cani in genere rappresenta un pregio che rende tutti questi piccoli esseri coccoloni, poco aristocratici, molto cerimoniosi e innamorati dei loro padroni. Tequila la dovreste vedere quando ringrazia a modo suo per una scodella di cibo che ha trovato gustoso o quando torni la sera, stanco da una giornata di lavoro.
Davvero, in quei momenti, pensi che un angelo si sia presentato a casa sotto mentite spoglie, senza ali, aureole o luci, ma con il sorriso del Creatore.
Hanno solo il musetto delizioso e la capacità innata d’infinite dolcezze che stordiscono. Perché vi racconto questo?
Vorrei spiegarvi perché vedo Dio in Tequila. La notte la bestiola dorme un po’ ovunque, ai piedi del letto di mia figlia, sul divano del salotto, nell'angolino più nascosto della cucina, meno che nella sua cuccia di ordinanza e, soprattutto, ben lontana da me perché la sgrido ogni qual volta, si avvicina al nostro lettone. A volte accade che il sonno tardi ad arrivare e riesco a sentire i suoi piccoli lamenti. Lei sogna ed io mi chiedo se faccia sogni belli o brutti.
È accaduto che una sera sia tornato completamente fuori di me. Avevo avuto un diverbio acceso con un amico cui avevo giurato, a fine strilli, di non considerarlo più tale.
La notte, quando finalmente calmatomi, sono riuscito a prender sonno, lei silenziosamente si è sdraiata come non accade mai a terra, nella parte del mio letto. Questo, incurante, che io al risveglio potessi rimproverarla. L’ho trovata lì all'alba che mi puntava i suoi occhi teneri, quasi dicendomi:
 “Com'è che ti professi cristiano, che parli di amore per gli altri e poi non perdoni le offese?”.
Ditemi che sono pazzo, ma in quel momento mi è parso che in lei ci fosse il Signore a ricordarmi quell'amore di cui ero stato carente la sera precedente.
Prima che l’amico uscisse per andare al lavoro, ho telefonato chiedendo scusa proprio quando anche lui stava per comporre il mio numero. Abbiamo pianto come stupidi cinquantenni fuori di testa, insieme nelle cornette. Oggi siamo, se possibile, ancora più amici di prima.

Da quando ho Tek (lo abbreviamo così il suo nome), in casa, ho la certezza che il mondo riesce ancora a esprimere la sua bellezza, quello che s’ignora, che non ha coscienza di sé, quella che trovi in un animale goffo, in certe vecchine curve per l’artrosi deformante e con la voce assurdamente stridula, nei bimbi non ancora corrotti dalle moine stupide dei grandi, nelle piante, in una parola nel creato di Dio!

Questa è la vera bellezza, quella di chi o di cosa non sa di esserne dotato, la bellezza dei puri di cuore, da difendere e da cui ripartire per un mondo migliore. Già, i puri di cuore!
La bellezza che è anche in una creatura magari sgraziata, apparentemente rozza, ma dalla dolcezza infinita.

sabato 19 luglio 2014

Lampada ai miei passi è la tua Parola!

Ignorare le Scritture è ignorare Cristo (San Girolamo, primo traduttore della Bibbia in latino) 

In alcuni di noi la Parola di Dio scorre proprio come l’acqua di una grondaia; non penetra, né lascia traccia! È come la neve che scioglie su di un prato al disgelo e scorre in mille rivoli impazziti.
Perché si dovrebbe leggere un testo sacro d’ispirazione divina, mi chiedo, se non scorre nelle vene il desiderio profondo di mettere in pratica nella vita quotidiana gli insegnamenti eterni?
Perché aprire la Bibbia per poi rifiutarsi di meditarla o di capire cosa Dio ci sta chiedendo?
Meglio faremmo a impiegare il tempo leggendo un giallo, un romanzo rosa, un fumetto, addirittura!

Eppure se per un attimo fermassimo il nostro vivere frenetico e pensassimo che questa Parola ci viene dal Cielo, da molto alto, che è una realtà viva e feconda.
È simile alla pioggia e alla neve che irrigano e fecondano la terra.
Se veramente riuscissimo a meditare tutto ciò, forse questo mondo senza misura e senza gloria, questo nostro tempo senza preghiera, senza silenzio o ascolto, forse sarebbe migliore.

In una società fast food in cui tutto quello che stai vivendo, un attimo dopo è preistoria, l’incontro con il Signore è il tempo di una stretta di mano simbolica e un saluto fugace, della serie se esisti ricordati di me quando mi chiamerai e a proposito, fallo più tardi che puoi.

Il diluvio delle nostre parole, impedisce la meditazione, soffoca l’appassionato suono della voce dell’Immenso. Identificare la Parola con il cibo dell’anima è difficile.
Saperlo portare alla bocca, masticarlo, gustarlo intensamente e senza fretta, assimilarlo del tutto, per molti “credenti” di oggi è un esercizio d’immaginazione troppo problematico.
Se poi la Parola la trasformiamo in “oratio”, cioè preghiera e infine “contemplatio”, cioè adorazione, per entrare in quel mondo fantastico che è la preghiera del cuore con la quale Dio è veramente accanto a noi, non so proprio quanti di noi riescono ad avere questa possibilità almeno una volta nella vita.

È anche vero che se c’è qualcosa capace di farti sentire profondamente inadeguato questa è la Parola di Dio. Essa trascende i tempi. Le opinioni umane vanno e vengono.
Quanto oggi pare moderno, domani sarà obsoleto ma la Parola, diceva Benedetto XVI papa emerito, vale per sempre. La Bibbia è il navigatore che ci guida sulle strade della cronaca quotidiana, nella vita familiare, in quella sociale e politica.
È come una luce che squarcia i momenti bui, un patrimonio di tutti da conservare in questo difficile terzo millennio in cui tutto viene messo in discussione.

Anche frequentando assiduamente le letture bibliche, tutti i giorni “ruminandole” come fa una mucca beata in un prato verde con l’erba fresca, masticandole ore e ore, capiterà prima o poi di riprendere un brano meditato e trovarlo completamente diverso.
Usciranno fuori mille nuove cose sfuggite alla prima lettura. Perché la Parola è come la nostra esistenza. Si snocciola giorno per giorno senza che noi riusciamo mai a comprenderla a fondo, ad assimilarla completamente.
Forse è per questo che i tesori inesauribili della Bibbia rendono i messaggi vivi e efficaci nel momento in cui arrivano.
 Chi continua per tutta la vita o quasi a perseverare nella ricerca della Luce presente nella Scrittura come sostegno alla vita quotidiana, quello è il vero sapiente, colui il quale sarà sempre confortato anche nella disgrazia più grande.

 P.S. Per iniziare ad avere un primo approccio con la Parola perché non frequentare le nostre “Letture oranti” che si svolgono periodicamente nel santuario della Madonna delle Grazie a Teramo?
Oppure in parrocchia a S.Antonio, dove settimanalmente ci si incontra per capire meglio la Parola delle domenica?
Chiedete informazioni!

Sentiamoci in diritto di indignarci!

Fra i tanti problemi che affliggono il nostro mondo, le nostre esistenze, quello che ritengo sia più grande, quasi irrisolvibile, è l’indifferenza, la mancanza lucida di umanità.
Oggi davvero più che mai ognuno coltiva il suo orticello, disinteressandosi, chi più chi meno, del resto del mondo.
Il brutto è che questo mondo è cambiato in maniera profonda e noi dovremmo cambiare nella stessa maniera e anche meglio.
Invece, facciamo finta che tutto sia come prima, vivendo una vita che crediamo normale ma al contrario ha tutto dell’anormale.
Ditemi cosa ci sia di normale in una società che mette l’uomo in fondo alle sue priorità e che trova necessario incrementare profitti a scapito degli individui!
Un aereo civile con trecento passeggeri viene abbattuto da pochi sgherri che si fanno guerra, filorussi, separatisti, ucraini che siano, mentre volava per raggiungere una meta.
Per noi è normale che tutti siano morti.
 Qualcuno parla di tragica fatalità, altri di errore umano, nessuno dice che la guerra è sempre portatrice di morte.
 Le diplomazie parlano, parlano, parlano e intanto i barconi dei profughi continuano a fare rotta verso l’Italia con il suo carico umano di disperati, uomini, donne bambini.
 Mentre scrivo altri 180 esseri umani sono stati ritrovati a largo delle coste italiane, morti nelle stiva tra esalazioni di monossido di carbonio, ammassati come bestie.
 Ennesima storia di povera gente che perde la vita nello stretto di Messina, mentre odiosi scafisti, mafiosi senza scrupoli, arricchisce.
Inutile dire che ci preoccupiamo solo quando sono toccati i nostri interessi personali. Il resto rientra nell'alveo della normalità.
Nella striscia di Gaza muoiono donne e bimbi sotto le cosiddette “bombe intelligenti”, ma cosa c’è di intelligente in una guerra?
E mentre si muore, in un’altra parte del mondo il dramma di un Paese è che il Brasile sia stato eliminato alle semifinali del Torneo Mondiale di calcio!
Qualcuno regola la propria coscienza con il pilatesco: “Sono cinquanta e passa anni che Israele e Palestina si fanno guerra, cosa ci possiamo fare?”.

Non pretendo di smuovere le coscienze. Non ne ho la forza e neanche il carisma.
Sarebbe bello, però, far sentire le nostre voci, ridurre al silenzio chi dice che nel mondo è importante primeggiare, guadagnare soldi e potere.
Sentiamoci in diritto di indignarci!

Pensiamo con la nostra testa, ricorriamo ai servizi del cuore.
 Sentiamoci lontani dal potere e vicino davvero a chi soffre, il nostro vero prossimo!
Facciamo ognuno qualcosa di piccolo perché insieme si possa fare qualcosa di grande.
Parlarne è già un buon inizio!

Cominciamo a bandire nei nostri rapporti interpersonali odio, violenza, rancore, astio, risentimento. La violenza sia fisica che verbale brutalizza non solo una vittima ma anche chi la compie. I
nfine evitiamo di parteggiare per uno o per un altro: America o Russia, cristiani o musulmani.

Parteggiamo per la vita che Dio ci ha donato!

giovedì 17 luglio 2014

La Verna, da oltre 800 anni un dono per tutti. “Altro Monte non ha più santo il mondo”

 Beatitudine!
Ecco la sensazione che si prova appena messo piede nel convento della Verna, sul monte santo dove il Cristo stimmatizzò Padre Francesco, accogliendo la preghiera del santo: “O Signore mio Gesù … che io senta quel dolore che tu sostenesti nell'ora buia della tua Passione …”

Il poverello d’Assisi in quest’oasi di pace aretina è presente ovunque.
 Così com'era presente ovunque in vita a portare il messaggio di un Dio innamorato degli uomini, fino in Dalmazia, Spagna, Medio Oriente. Lo è, in particolar modo, nella Cappella delle Sacre Stimmate, là dove raggiunse il suo personale Tabor, il Calvario della sua completa immedesimazione con l’”Amato”, quel Cristo che sconquassò il suo cuore troppo piccolo per contenere tutto l’amore di un Dio sorprendente.
Francesco è ovunque, affascinante come non mai.
A ogni passo che si percorre all'interno di questo luogo che è un viaggio nella spiritualità, lo vedi accanto come la propria ombra.
Tutto intorno, nient’altro che natura, meravigliosa essenza della bellezza munifica del Creatore. Non poteva essere altrimenti ripensando a un uomo che è stato cantore dei benefici del sole che scalda, dell’acqua che disseta, delle creature, dono del Signore. Francesco è accanto a chi visita con cuore puro questo luogo. Apre gli occhi di chi non è capace di ammirare compiutamente tanta meraviglia dentro e fuori il convento: abeti che svettano dritti, dritti verso il cielo, aceri, faggi, frassini, un mondo verde a formare una foresta incantevole.
 La Verna è un luogo di Dio donato a Francesco più di ottocento anni fa, dal conte Orlando Cattani della Rocca di Chiusi.
Nel 1213, a San Leo, il nobile intuì, sicuramente sotto influsso divino, che quel luogo di rocce aguzze, perso nel bosco, sarebbe diventato in breve tempo casa di Dio per orazione, contemplazione e penitenza.
Da allora, tutti e non solo i francescani, che salgono sul monte, hanno diritto di sperare in un incontro dell’anima, trovando la piena autenticità del carisma nell'esempio fulgido della conformità al Cristo del santo
più amato nel mondo.

La Verna è un luogo dove, seppur schiacciato dalla folla di fedeli che incessantemente riempie i viottoli del convento, ognuno può cogliere il silenzio, ascoltare una piccola voce, dal canto di un uccello, al bramito di un cervo, al fruscio del vento leggero che attraversa il polmone verde delle foreste Casentinesi.
Sono le più autentiche armonie di un creato che fa salire al cielo l’offerta al Creatore di un palpito del cuore delle creature in perenne lode al Signore dell’universo.
Chi sale questo monte benedetto è stanco delle molte parole che, quotidianamente si riversano su di noi, anela alla chiarezza, alla pace, al silenzio, alla tacita quiete di Dio, origine da cui tutti noi proveniamo. Perché il silenzio c’è dato. È una condizione che percepiamo, di cui siamo circondati e che noi copriamo con i nostri rumori, senza però spegnerlo.

 Io lo confesso in sincerità. La Verna mi è rimasta nel cuore.
Ho sentito come non mai la mia appartenenza alla famiglia francescana.
Ho percepito nei gangli della mia anima la presenza di Francesco e, sopra di lui, quella del Cristo.
E ho capito meglio anche il mio rapporto con il santo d’Assisi.
Io e lui, due realtà veramente diverse e, nello stesso tempo, uguali.
Lui un santo, e che santo! Io un peccatore a volte pentito, a volte ignaro, a volte indolente che segue il piccolo fraticello umbro nella grande utopia meravigliosa di raggiungere, almeno in piccola parte, la sua santità. Lui innamorato di Cristo nei fatti tanto da definirlo “il bene, tutto il bene, il sommo bene” (FF 161). Io, amante del nostro Dio nelle parole, distratto fatalmente dal mondo che mi circonda.
Lui, Francesco, in grado di vedere il Maestro in ogni piccola bellezza di Madre Natura nell'antica foresta. Io, innamorato del creato ma, spesso incapace di codificare compiutamente il messaggio che invia un fiore, un albero, una montagna erta, un fiume impetuoso.
Lui, il santo delle creature, festeggiato da nugoli di uccelli, da lupi, improvvisamente mansueti, dal più grande al più piccolo degli esseri nati da Dio. Io, perso tra le mie superbie a credermi il padrone dell’universo.
Lui, Francesco, in grado di rinunziare senza tentennamenti a tutte le ricchezze per vestire Madonna Povertà con un saio liso e stretto in vita da una corda logora ricca di nodi, un cappuccio, un largo mantello strappato in più punti e piedi scalzi anche con la neve, protetti solo da semplici sandali. Io sempre a lamentarmi dei soldi che non bastano mai.
Lui, campione di umiltà, “vilissimo vermine e disutile servo” (FF 1915). Io campione di orgoglio cieco e altezzoso.

 Che emozione indicibile, guardare, nella chiesa madre del convento, la reliquia della veste del santo. Che sensazione d’impotenza sbirciare nell'anfratto di roccia dove poggiava sulla pietra la sua testa dopo aver a lungo ringraziato il Dio dell’universo e suscitato il desiderio di Lui ai tanti che incontrava, addormentandosi in “perfetta letizia”.

Che grande onore essere comunque in viaggio da anni, insieme a un uomo che a ragione si può definire “Alter Christus”, simbolo perenne di pace, riconciliazione e fraternità, meravigliosa icona di una città dell’uomo in cui regni sovrano l’amore vero!
Evviva Francesco!

Senza l'Amore andiamo dritti verso l'estinzione!

Bergoglio, nel giorno in cui fu eletto papa e scelse il nome di Francesco in onore del santo più amato al mondo, chiese alle donne e agli uomini di buona volontà, di essere “custodi del creato”, difensori dell’ambiente e della creazione di Dio.
In una parola, di donare amore per tutto quello che Dio ci ha donato intorno.
Credo che da allora gli oltre un miliardo di cattolici del mondo debbano sentirsi coinvolti e chiamati “alle armi”, mobilitandosi in prima persona non solo nella difesa del suolo ma anche in quella degli uomini più deboli e indifesi e di tutte le specie che quotidianamente sono minacciate da un crescente e insopportabile attentato contro l’esistenza.
A parole siamo tutti contro le polveri sottili rilasciate dalle auto, tutti odiamo le guerre con le loro armi di distruzione, le eco mafie che sotterrano rifiuti tossici, coloro che spargono liquami e combustibili nei mari, quelli che vergognosamente inquinano fiumi e laghi con detersivi di ogni tipo.
La custodia del creato presuppone impegno costante, certo, ma soprattutto richiede un grande Amore. Noi dovremmo avere peso e misura nella nostra vita in tutto, tranne che nell'amore.
 Amore significa, ad esempio, riconoscere che gli animali non sono strumenti dati da Dio per favorire l’espansione umana e che le forze della natura non sono state create per scardinare gli eco sistemi ma, semmai, per farli funzionare meglio.
E poi, se volessimo spendere qualche riga per spiegare il concetto di pace, quello che esprimeva più di 800 anni fa il Poverello di Assisi e che oggi, con i suoi modi semplici, ci chiede Bergoglio, dovremmo convenire che è ben più alto di quello che si crede comunemente, cioè l’ assenza di guerre!
La pace verso gli altri e verso tutte le creature viene dall'amore.
Dal nostro Dio, quello che professiamo di credere, ci viene chiesta armonia, essere cioè uomini di buona volontà, parte di un immenso contesto fraterno.
 E l’armonia, quella vera, si realizza con i fatti e non le chiacchiere. È la mancanza di amore che ci sta portando dritti verso l’estinzione.
Il non amore verso il creato e il Creatore ci impedisce di amare i nostri fratelli, gli animali, le piante e tutto quello che c’è nella terra.
Gettiamo bombe su popolazioni indifese, bruciamo combustibili, deforestiamo il mondo, roviniamo irrimediabilmente le bio diversità, accentuiamo il solco tra ricchi (pochi) e poveri (molti). Se Francesco d’Assisi fosse ancora su questa terra sarebbe un leader in difesa della vita, dalla più piccola alla più grande creatura di questo mondo.
 Da francescano mi illudo che Francesco sia ancora in mezzo a noi in missione per conto di Dio, nascosto dentro il nostro papa argentino.

Sono sicuro che ci direbbe: “Vivi d’amore e vincerai sempre”!
Perché tutto quello che si fa per Amore, scriveva il sacerdote Josèmaria Escrivà, acquista bellezza e grandezza.