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martedì 22 luglio 2014

La gioia del discepolo

“Vi do la mia gioia. Voglio che la mia gioia dimori in voi e che la vostra gioia sia piena”. (Giovanni 15,11)

Un articolo che parli di gioia può sembrare un’idea bislacca per qualcuno, fuori luogo in un momento dove i problemi soprattutto economici, impediscono anche un semplice sorriso.
 Come cambiare la tristezza in gioia per tutti quelli che soffrono?
Come rendere reali e non utopiche le parole del Vangelo giovanneo che al capitolo sedici, versetto venti promette: “La vostra tristezza si muterà in gioia …”.
Come riuscire a concepire un brutto avvenimento della vita, come inequivocabile segno di grazia, di bontà e tenerezza del nostro Dio?
Come sentirsi riempiti della felicità che viene dall'essere consci che Dio è nostro Padre e noi i suoi figli diletti?
Il Vangelo è la buona novella che dovrebbe portare gioia, ma noi, che pretendiamo la figliolanza con il Creatore, spesso abbiamo l’aspetto funebre, lugubre di chi non ha speranza nel futuro.
Diceva il grande filosofo tedesco Nietsche, ateo convinto:
 “Se la buona novella che porta tutta la Bibbia, fosse anche scritta nei volti dei cristiani non avreste bisogno di insistere perché i non credenti cedano all'autorità della Parola”.

La gioia, amici miei, la comanda Cristo che un bel giorno disse con chiarezza:
“Se mi amaste, vi rallegrereste …” eleggendoci tutti depositari della sua gioia.

Eppure la maggior parte di noi cristiani si affligge col Cristo, si sente inchiodata alla croce, sventurati e sfortunati, addirittura non amati. In Quaresima, tutti pronti come siamo ai segni esteriori, recitiamo la “Via Crucis”, nessuno che pensi di organizzare, nelle nostre parrocchie o comunità, una bella “Via della Gioia”. Siamo anche capaci, professionisti come siamo delle disgrazie altrui, a essere vicini al fratello piegato da un dolore o da una situazione pesante con parole, preghiere, consigli.
Ci riesce, invece, difficile associarci a una gioia, forse per una sottile invidia o perché crediamo che la gioia stessa sia sempre degli altri e non la nostra.
Condividere la felicità del fratello, rallegrarci della sua gioia presuppone un grande altruismo, un disinteresse e un distacco da se stessi, un’apertura massima agli altri.

Diceva un Padre della Chiesa: “Non c’è che un solo mezzo per guarire dalla tristezza, non amarla!”. Fateci caso. Se qualcuno di noi prega in casa, ha sul comodino l’immagine del Cristo inchiodato in croce o, sopra la testata del letto, un crocefisso con Gesù che patisce. Sono pochi coloro che si mettono in preghiera davanti all'immagine del Salvatore che risorge.
Basta ripiegarsi su se stessi, basta affliggersi per quello che poteva essere la nostra vita e non è stata, per qualcuno che ci manca per essere volato in cielo, del quale ci desoliamo della perdita, ma non ci curiamo della sorte.
Basta anche piangere sugli acciacchi della salute, sui figli che non danno soddisfazioni. Così il nostro cristianesimo diventa inutile.
Diventano superflue anche le famose Beatitudini che non riescono, quando c’è tristezza tra i discepoli, a capovolgere i criteri mondani della nostra convulsa realtà, a dare compimento alla scala dei valori di Dio. Al contrario, a studiarle bene le Beatitudini, scopriamo il rovesciamento dei valori umani, perché i poveri, i perduti, quelli che dovrebbero immergersi nella tristezza, hanno invece validi motivi di gioia perché il Signore li rende fortunati e benedetti nonostante le sofferenze.
La gioia non è mai sola degli altri, è anche la nostra.
La possediamo già sin d’ora e non solo quando andremo nell'aldilà. La felicità di Gesù non c’è donata in un futuro che vorremmo lontano.

Se cominciamo a guardare e a vivere a partire da Dio, dice Benedetto XVI, papa emerito nel suo “Gesù di Nazareth”, se camminiamo in compagnia di Gesù, la gioia, quella vera, l’avremo anche in terra. Incominciamo da questa santa Pasqua 2014 a fare della nostra vita un inno di gioia, riuscendo a sorprenderci sempre della bellezza del creato così come accadeva per il nostro serafico Francesco.

Per ogni disgrazia che si abbatte su questa terra, ci sono migliaia di eventi che compensano il dolore con la gioia.
Sentiamo profondamente nostre le parole dell’Apostolo delle genti, il grande missionario Paolo di Tarso, pronunciate nella Seconda Lettera ai Corinti (4,8-10):
“Siamo tribolati da ogni parte ma non schiacciati, sconvolti ma non disperati, perseguitati ma non abbandonati, colpiti, ma non uccisi …”.
Lui, Paolo, uomo e non supereroe si sente sì all'ultimo posto, senza patria, insultato, calunniato e nonostante tutto, fa esperienza di gioia infinita e riconosce quanta misera sia la soddisfazione e la felicità effimera che dona il mondo.
 La croce per lui diventa il luogo della gloria, della misteriosa gioia del discepolo che si dona interamente e senza condizioni al suo Signore, con l’allegrezza nel cuore.

Riscopriamo, nella Risurrezione del Signore, la “perfetta letizia” del nostro serafico Padre Francesco, l’”Alter Christus”, il santo che veramente ha tradotto le Beatitudini nella sua esistenza umana in modo più intenso. Francesco era nella gioia perché aveva estrema fiducia nel suo Dio che non provvede solo ai fiori dei campi, al mangiare degli uccelli del cielo, ma si prende cura infinita dei suoi figli amati.

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