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giovedì 25 settembre 2014

XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Ezechiele 18, 25-28; Filippesi 2,1-11; Matteo 21, 28-32 

In quest’ultima domenica di settembre la liturgia propone il capitolo 21 del Vangelo di Matteo.
Si sta acuendo lo scontro tra gli scribi e i farisei da una parte e Gesù dall'altra.
Essi chiedono a Colui il quale è già osannato dalle folle come il “Messia”, da chi abbia ricevuto l’autorità per dire e compiere le cose che fa.
Il Cristo aveva appena agito nel centro stesso del culto, il tempio.
La sua provocazione non si era limitata ai trafficanti. Gesù denunciava le gravi incoerenze e aveva preso di mira anche la rispettata classe dei sacerdoti, rei di abusi e di mancanze ripetute di rispetto per il luogo sacro a Dio e per Dio stesso.
Aveva così scacciato con un furore strano per lui, i cambia valute e i venditori che avevano reso il cortile del tempio “una spelonca di ladri”.
Precedentemente si era registrato anche l’episodio del fico infertile, senza frutti e solo con foglie ai rami. Gesù lo aveva maledetto con la frase:
“Nessuno possa mangiare i tuoi frutti” (21, 18-19) e l’albero si era irrimediabilmente seccato.
Era il gesto simbolico con cui il Signore della vita rigettava Israele perché non aveva prodotto i frutti santi e buoni che chiedeva il Cielo!
La religiosità del popolo era arida. Gesù con l’audacia sconcertante della verità chiedeva e chiede anche oggi a noi di decidersi: O con lui o contro di lui.

Gesù, nonostante tutto questo, ammaestra le genti con tre successive parabole, la prima delle quali l’esaminiamo proprio in questa domenica.

Protagonisti sono due figli e, capiamo bene, chi sono: uno rappresenta il fariseo pieno di sé, sicuro di una condotta integra, l’altro il pubblicano, quello che in umiltà raccoglie comunque l’appello di Gesù alla conversione del cuore, al pentimento delle azioni nefande fatte in precedenza.
I presunti buoni sono quelli che hanno rigettato perfino i segni evidenti che Gesù ha compiuto davanti ai loro occhi, gli stessi che presto crocifiggeranno quel Gesù venuto a portare amore e giustizia agli abbandonati della terra.

Come esige qualsiasi parabola, anche questa interroga tutti noi. Anzitutto ci costringe a una revisione di vita e a riconoscerci nell'uno o nell'altro protagonista.
Il quadretto di vita familiare, d'altronde è semplice e molte famiglie possono riconoscersi in un pezzetto di situazione.
A volte un figlio apparentemente tranquillo, nasconde insoddisfazione grande, mentre ragazzi aspri si dimostrano in una data situazione, pieni di tenerezza e generosità.

La domanda è: Siamo farisei, convinti di poter fare tutto senza l’intervento di Dio? Siamo dei perbenisti formali che ci riempiamo di gratificazioni o siamo invece i ribelli, magari pubblicani capaci però di bontà senza interessi?
Ci crogioliamo soddisfatti nel nostro formalismo religioso vuoto interiormente o siamo capaci di essere segno per gli altri con le nostre opere?
E ancora …
Forse siamo di quelli che ascoltano la Parola, che ci piace intellettualmente, che gustiamo come un buon romanzo da leggere, vivendola fin quando la si legge ma non aderendo pienamente al messaggio che il Signore ci dona?
Tante persone religiose che popolano le nostre chiese non rappresentano i veri giusti. In realtà non fanno veramente il volere di Dio. Ipocrisia o sincerità nascosta sotto moti di ribellione?
Un invito quindi a non giudicare dalle apparenze il figlio apparentemente ribelle ma in realtà obbediente! Le parabole sono grandi appelli alla conversione, certo … ma domandiamoci se sappiamo cosa sia una conversione.
Ci si converte quando in verità diventiamo consci che tutta la nostra vita dipende da Dio, quando aneliamo a Lui, quando l’osservanza dei comandamenti è la fonte viva della nostra consistenza umana, della nostra gioia di vivere che riscopriamo anche nelle situazioni limite e nei vicoli ciechi della nostra storia.

Convertirsi è quando dal profondo del cuore facciamo nostro il grido del salmo 118, ad esempio: “Indicami Signore la via dei tuoi precetti e la seguirò sino alla fine … dammi intelligenza perché osservi la tua legge e la custodisca con tutto il cuore …”.
Siamo convertiti quando abbandoniamo gli schemi mondani e riconosciamo il disegno divino su tutti gli avvenimenti piccoli o grandi, significativi o insignificanti nella nostra giornata. Al contrario a volte pensiamo di poter fare bene senza Dio.

Ricordiamo l’episodio di Samuele che alla voce del Signore che lo chiama risponde: “Parla Signore che il tuo servo ti ascolta”. Noi invece diciamo: “Ascolta Signore che il tuo servo ti parla”.

 Allora diventa chiaro anche il senso delle parole contenute nell'oracolo di Ezechiele, prima lettura. Siamo capaci di discutere anche il modo di agire di Dio, lo definiamo poco retto. Il profeta, voce di Dio ci ammonisce che se il malvagio si allontana dalla giustizia muore. Se al contrario dovesse convertirsi dalla sua malvagità e compiere opere buone farà vivere se stesso. Torna il tema della grande misericordia di Dio che abbiamo spesso meditato.

La domenica ci regala anche la fantastica lettera di Paolo ai Filippesi di cui abbiamo già decantato la bellezza teologica.
Questo testo divino dovrebbe non solo essere meditato ma centellinato, decantato come gocce di ottimo vino.
È l’Inno cristologico all'Umiltà così come la lettera ai Corinzi, nel XIII capitolo è l’Inno all'Amore. Sono le pagine del Nuovo Testamento che raggiungono i livelli più alti.
Paolo pone quasi a confronto la carità che è il dono più grande dello Spirito Santo e l’umiltà, dote necessaria per potere amare.
Chi può insegnarci amore e umiltà se non Dio?

La storia della salvezza dell’uomo è intrisa dell’umiltà senza fine del nostro Dio che, sin dalla caduta nel Giardino dell’Eden, è corso sempre alla ricerca dell’uomo per la sua salvezza. Si è fatto pastore che cerca la pecorella smarrita dal gregge per ricondurla al buon pascolo, si è fatto padre che perdona le intemperanze di un figlio che lo abbandona per sperperare i suoi averi realizzati in una vita di lavoro, si è fatto padrone della vigna per indurci a essere tralci attaccati a lui e produrre buoni frutti. Ha voluto incarnare il Figlio, rendendolo “simile agli uomini nella condizione di Dio e non lo ritenne un privilegio ma svuotò se stesso e assunse condizione di servo, che si umilia fino alla morte e alla morte di croce …”.
Più volte Dio ha svelato la condizione divina del Figlio: Sul Tabor, dove trasfigurandolo, lo ha reso splendente; Nei ripetuti miracoli che hanno reso palese la sua potenza, rendendo chiara a tutti anche la dimensione della sua sapienza senza fine. Eppure ha insegnato all'uomo l’accettazione della croce in umiltà.
 A ben guardare l’umiltà di Dio si scopre anche nel continuo dono dello Spirito Santo che mette al servizio dell’umanità sbandata dal materialismo, per illuminare, consigliare e consolare. E noi? Abbiamo nel cuore un pizzico di umiltà? Portiamo questa dote all'interno della famiglia, del lavoro, nel servizio ai fratelli? Siamo fedeli a Dio accettando con umiltà le croci quotidiane o diciamo come nella prima lettura di Ezechiele che “non è retto il modo di agire del Signore”.

Ci rendiamo conto che nella sua Passione, Gesù si è fatto come lebbroso, reso impuro dai nostri vizi, per purificarci con la misericordia infinita del Padre?

Preghiamo nel chiuso delle nostre stanze con il salmo 24 di questa domenica e diciamo: “Ricordati della tua misericordia e del tuo amore che è da sempre … Insegnami i tuoi sentieri …”.

 Allora si che potremo dire come l’apostolo Pietro nella sua lettera (1, 5-6): “Umiliatevi sotto la potente mano di Dio, affinchè Egli vi innalzi a suo tempo”.

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