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sabato 20 settembre 2014

XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO A

Isaia 55, 6-9; salmo144; Lettera ai Filippesi 1,20c-24.27a; Matteo 20, 1-16 

Se dovessimo scegliere dalla liturgia di questa domenica del Tempo Ordinario una frase simbolo, potremmo trarla dal Libro di Isaia, prima lettura in cui si proclama che:
“I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie”.

Il profeta di cui non si conosce la vera identità e che porta all'umanità la parola di Dio, attraverso il secondo libro del grande Isaia, secoli prima del Vangelo di Matteo, esprimeva già in quel tempo lontano un concetto difficile da metabolizzare.
La società di oggi è basata sulla retribuzione dei lavoratori e regolata dal principio di meritocrazia. La frase precedente potrebbe fare il paio con quella finale del Vangelo dove si legge:
“Così gli ultimi saranno i primi e i primi, ultimi”.

La parabola degli operai chiamati a ore diverse a lavorare nella vigna, risulta a prima lettura abbastanza ostica.
Per noi la retribuzione deve avere una logica di stimolo per chi lavora di più in modo da assicurare l’efficienza dell’azienda, questo secondo normali criteri economici e sindacali.
Ma le vie del Signore sono diverse come recita ancora il primo bellissimo brano della liturgia della Parola:
“Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie …”.

A ben guardare ci sarebbe un altro importante criterio da rispettare oltre quello normale del maggior impegno profuso ed è quello di assicurare una vita dignitosa al collaboratore di un’azienda e alla sua famiglia. Ne erano ben convinti al tempo di Gesù in Palestina.
La retribuzione era di un denaro al giorno e il padrone della vigna offre questo compenso sia al primo che all'ultimo arrivato tra gli operai, affinché possano vivere dignitosamente.
Immaginiamo quindi la scena presa dal vivo di disoccupati assunti a lavoro.
Questo padrone è reputato ingiusto, mentre al contrario come spesso accade nella Parola, è piuttosto generoso. Il padrone è Dio. Noi siamo gli operai ingrati.
Ricevuto il salario pattuito, ad esempio, ci meravigliamo come quelli della parabola, che il padrone riservi lo stesso trattamento a chi si converte un minuto prima di morire. Anche noi pensavamo di meritare di più.
Piuttosto che gioire per la bontà del padrone ci lamentiamo per la presunta ingiustizia. È un retaggio di questa società e dal trionfo del capitalismo selvaggio e sfrenato.
Non leggiamo la parabola secondo parametri sociali odierni, altrimenti chi schiereremmo con i lavoratori che hanno faticato per più ore. Dio nel Vangelo ci dice una frase illuminante:
“Sei forse invidioso perché io sono buono?”.

Il Signore, elegantemente, ci vuol dire che la religione non è quella del fariseo osservante e zelante, ma è quella di chi, pubblicano, prostituta e peccatore, si pente davvero e chiede misericordia. Pensiamo al riferimento del fratello adirato perché il figliol prodigo è tornato e il padre uccide un capretto per far festa.
Il nostro è un senso di giustizia opportunista. Gesù, distante mille anni luce dalla logica comune, ci dice che tutti hanno un salario intero perché tutti devono far parte a pieno diritto della medesima gioia del Regno.
 A noi che ci crediamo i privilegiati insegna che la sua azione è identica per tutti, giusti e peccatori. Nel pensiero del Signore non ci sono esclusi, emarginati, nessuno può rivendicare privilegi dati da anzianità e merito. La grazia è un dono e non c’è posto per gelosie e ripicche tra di noi figli di Dio. Il premio che il Signore dà a tutti gli operai del regno dei cieli è la salvezza. E la salvezza non è ricompensa contrattuale, è invece iniziativa divina fatta di amore in cui siamo tutti invitati! Non si può dare due salvezze a chi è arrivato prima! Neanche mezza a chi è in ritardo. La salvezza è una!

E noi, condividiamo nel profondo del cuore questa bontà del Signore?
Gioiamo anche noi per la salvezza degli ultimi arrivati o puntiamo il dito reclamando diritti per noi stessi?
In fondo, questo ci aspettiamo dal nostro Creatore, come recita il bellissimo salmo di oggi, n.144: “Misericordioso e pietoso, lento all'ira e grande nell'amore … Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature …”.
E adesso, occorre fare attenzione. Dio si serve di noi come collaboratori della sua opera di salvezza e ci chiama a servizio in varie ore, con tempi e modalità diverse.
Noi non dobbiamo impegnarci per un salario, per un premio futuro e non dobbiamo stare a guardare cosa viene dato in premio ad altri.
 Noi siamo solo gli “umili operai della vigna del Signore”, dobbiamo operare con gioia disinteressata a che la comunità, dove operiamo, sia aiutata dal nostro esempio, dalla nostra abnegazione. 

Confrontandoci con il Vangelo dobbiamo chiederci:
 “Facciamo tutto in funzione di un corrispettivo immediato?
Cosa cerchiamo realmente quando ci mettiamo a servizio dei fratelli. È un vanto per noi donare noi stessi nella vigna del Signore?
O, al contrario, cerchiamo il nostro interesse, vogliamo essere consacrati, affermare il nostro Io? Forse dobbiamo ancora imparare a gioire del bene che Dio realizza attraverso i nostri fratelli e a goderne come se fosse donato a noi, superando gelosie e opportunismi.
 Con questa Parola di oggi, il Signore ci chiede di uscire da una logica economica per entrare in una logica di generosità perché, in un altro passo di Matteo, capitolo 5, si dice:
“Che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e i buoni e fa piovere su giusti e ingiusti”.
La parabola è un canto di grazia e di infinito amore del nostro Creatore.

La seconda lettura è tratta dalle lettere di San Paolo Apostolo, il più grande evangelizzatore del mondo. Filippi era una regione della Macedonia abitata in prevalenza dai discendenti delle legioni di Cesare che aveva loro assegnato per il servizio armato prestatogli.
La comunità qui era molto cara all'Apostolo.
A quella comunità Paolo scriverà di aver accettato tutte le avversità durante i suoi viaggi apostolici: “So vivere nella povertà, come nell'abbondanza; sono allenato a tutto, alla sazietà come alla fame …”.
In questo diario dei suoi sentimenti, con tenerezza, Paolo insegna che morire è un guadagno così da entrare in perfetta comunione con Cristo. Ma, persuaso che la sua vita in quel momento era importante per i suoi fratelli, rimane combattuto perché deve amare la vita e annunciare il Vangelo, ma contemporaneamente sente vivo il desiderio di una morte prematura per unirsi totalmente, faccia a faccia col Cristo.
 “Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto non so davvero che cosa scegliere …”.
Paolo si affida quindi alla preghiera dei Filippesi e si augura che Cristo sia magnificato nel suo corpo, sia mediante la vita, sia mediante la morte:
“Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno …”.
L’Apostolo delle genti, il grande evangelizzatore, esorta tutti noi a specchiarci in Cristo e, come abbiamo proclamato nel giorno dell’Esaltazione della Croce, domenica scorsa, ci chiede di avere gli stessi sentimenti di Gesù, in forza dei quali Egli, pur essendo di natura divina non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo condizione di servo.
Meditiamo quanto sia diverso il comportamento degli operai offesi dal salario uguale agli altri. Paolo in un passo di una lettera al fidato Timoteo, nel 63 dopo Cristo, dirà che Cristo non fa discriminazioni alcuna tra uomo e donna, tra servo e padrone, tra schiavo e uomo libero, neppure, dirà tra Giudeo e Greco!

Per noi il messaggio è forte e chiaro.
Chi crede sul serio in Gesù non ha bisogno di fare rivoluzioni per assicurare a ogni persona umana giustizia e dignità.
Il guaio dei tempi nostri è che la fede non determina più il modo di pensare e agire nella vita quotidiana.

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